Italianesi

vedi trailer e scheda della produzione

Il sole 24 ore – Renato Palazzi – 12/02/2012
Grande, grandissimo Saverio La Ruina, un condensato di bravura e di alto senso poetico, capace di condurre passo passo lo spettatore – per accenni, per piccoli gesti – dentro l’anima di un personaggio, come forse solo Eduardo e pochi altri hanno saputo fare. Smessi i panni delle donne calabresi angariate protagoniste di Dissonorata e de La Borto, l’attore affronta qui un altro dramma lancinante, quello dei figli di militari italiani nati in Albania, dopo la guerra, e cresciuti nei campi di prigionia, fra due patrie, senza vera identità nazionale. In questo suo nuovo testo Saverio, golfetto un po’ vintage, spalle appena incurvate in una rassegnazione senza età, lievemente claudicante nello spostare la sedia che è il suo unico attrezzo scenico – è un sarto che ha passato gran parte della vita in uno dei lager nei quali il regime internava questi sradicati, sospettandoli di essere spie e traditori. Nel campo ha lavorato, si è sposato, ha avuto a sua volta dei figli. E quando ne è uscito per andare a conoscere il padre, e l’Italia di cui tanto aveva sentito parlare, ne è stato doppiamente respinto. Per certi versi, Italianesi è uno spettacolo sulla dittatura, sull’oppressione, un enorme spaccato storico colto però in una chiave minimalista, come a esorcizzare i toni della tragedia osservandola con occhi perennemente infantili: la detenzione è una guardia che decide quando si può andare in bagno e quando bisogna tenersela, sono le madri che denunciano i figli per salvare altri figli. La libertà sono i piccioni che mangiano pezzi di biscotti, sul suolo italiano. “Ma sono libero veramente?”. In questo interrogativo sta tutto il succo del racconto. E tuttavia anche gli avvenimenti più concreti, nell’intensissimo approccio di Saverio, sono colti in una luce puramente emotiva. La sua è una scrittura tutta fatta di sfumature, dove ciò che non accade è più importante di ciò che accade: qui non c’è, come nei due precedenti monologhi, la rabbia, l’ardore della protesta, c’è una straordinaria prova interpretativa interamente sviluppata sui registri dello stupore e della tenerezza, una musica del ricordo, una sinfonia di sentimenti scanditi da un impalpabile ma incalzante ritmo interiore. Le speranze, le delusioni, gli affetti traditi sono espressi in una lingua morbida e sinuosa, un calabro-italiano dolcissimo come le parole che slittano sulle “i” impropriamente accentate, la “pì- ega” il “cì-elo”. Accompagnato dalle note di Roberto Cherillo, che riempiono le pause di silenzio, il protagonista non si lamenta, non accusa, si rivolge alla platea con fare timido, sommesso: e a commuovere non è tanto la vicenda in sé, quanto il modo in cui lui la espone, con toccante adesione, ma senza un briciolo di retorica. Eccezionale

Linus – Renato Palazzi – 15/03/2012
Mi infastidiscono quelli che non vanno a vedere gli spettacoli, che non sanno nulla di ciò che accade nei teatri ma continuano a rimpiangere i bei tempi andati, quando c’erano i grandi attori, quando c’erano i grandi registi, quando si scrivevano dei testi che oggi invece, figuriamoci, te li sogni. Mi infastidiscono perché non è così, per diverse ragioni. In primo luogo, non è vero che il passato è sempre stato luminoso: c’erano grandi artisti, di sicuro, come ci sono sempre stati, ma c’era anche tanta produzione scadente, di puro consumo. E poi questo rimpianto di chissà cosa, di chissà chi impedisce loro di vedere gli autentici talenti del presente, che sono molti e che spesso hanno davvero poco da invidiare a quelli che si sono imposti in anni ormai lontani. Prendiamo, ad esempio, Saverio La Ruina, che è uno straordinario attore, ma anche un autore di altissimo livello, e un bravissimo organizzatore, capace di creare praticamente dal nulla – col suo compagno di lavoro, Dario De Luca – un festival importante come Primavera dei Teatri, in una cittadina calabrese lontana da tutto come Castrovillari. Se qualcuno ancora non lo conosce, deve sapere che Saverio si sta avviando a diventare un Eduardo dei nostri giorni, con la stessa acutezza interpretativa, con la stessa felicità nel racchiudere in una smorfia, in un’intonazione tutto il senso di un’intera vicenda, con lo stesso dono di attuare una scrittura finalizzata alla recitazione, ma perfettamente in grado di cogliere le più minute sfumature della vita. Vi chiedete come mai non se ne senta parlare – dai giornali, dalle televisioni – secondo i suoi meriti? In realtà non si può dire che Saverio abbia pochi spettatori. In Italia ha un suo pubblico niente affatto marginale, che però è il pubblico della nuova scena, di un teatro che ormai non può essere neppure definito di ricerca, chiamiamolo il teatro che si muove, che va avanti. E all’estero sta riscuotendo sempre più successo, benché parli un idioma che anche per noi è di ardua decifrazione. Però ancora non è arrivato alle grandi istituzioni, quelle che smuovono migliaia di abbonati e sanciscono la popolarità di un fenomeno: e non ci è arrivato per ignoranza loro, per distrazione, per inveterata tendenza a creare steccati. Così, continua a esserci un divario tra ciò che vale e ciò che ottiene ampi riconoscimenti. A dare lustro e prestigiosi premi a Saverio La Ruina – dopo un lungo cammino col suo gruppo, Scena Verticale, di cui vanno almeno ricordati Hardore di Otello e Kitsch Hamlet – sono stati in special modo due monologhi, Dissonorata e La Borto, in cui ha affrontato il tema delle vessazioni e delle sopraffazioni cui erano e sono ancora sottoposte le donne del nostro Sud: a colpire è stata la sua lingua personalissima, impervia ma fortemente espressiva, e soprattutto il suo modo di recitarli, col solo aiuto di una sedia e dell’accompagnamento di un musicista, in abiti né del tutto maschili né del tutto femminili, in virtù di un’identificazione con le protagoniste che è mentale prima ancora che fisica, fatta di movenze, atteggiamenti, posture. Da tutt’altro argomento parte il suo nuovo spettacolo, l’irresistibile Italianesi, che racconta una storia bellissima ispirata a una realtà drammatica e poco conosciuta, quella degli ex militari italiani – e dei loro figli – che in Albania, dopo la seconda guerra mondiale, hanno dovuto subire la persecuzione del regime, e sono stati costretti a lunghi anni di detenzione nei campi di prigionia. In questo caso rinuncia quindi a incarnare alla sua maniera il punto di vista delle vittime di delitti d’onore e soprusi domestici, per sfoggiare invece l’incerto passo claudicante e il dimesso maglioncino di un sarto che è cresciuto e ha trascorso quarant’anni in uno di questi lager, dove ha imparato a lavorare e messo su famiglia. Il narratore, il cui padre è stato espulso dall’Albania quando lui era bambino, è cresciuto fra due patrie, quella in cui è nato e l’Italia di cui tanto ha sentito parlare – terra di libertà, e di inesauribili bellezze – senza davvero appartenere a nessuna delle due: e infatti quando, dopo la caduta del comunismo, gli verrà riconosciuta la cittadinanza italiana, a tal punto si sentirà accolto come un estraneo senza radici da fare presto ritorno al Paese che l’aveva oppresso e segregato. Pochi anni prima aveva avuto – come una straziante metafora – un’analoga esperienza sul piano per così dire privato: gli era stato accordato il permesso di andare infine a conoscere l’anziano genitore, ma questi lo aveva trattato con tanta freddezza da indurlo a rompere per sempre ogni legame. E’ una vicenda amara, che apre un doloroso spaccato su un’ignota tragedia che ha toccato migliaia di persone. Saverio la rievoca come sa fare lui, con una mitezza disarmata, senza rabbia, ma anche senza traccia di patetismo. Tutto ciò che deve dimostrare è già scritto nel destino del personaggio, in quell’impossibilità di una vera scelta, in quella dolce consapevolezza di sconfitto, seppure mai del tutto rassegnato. è già scritto nel suo corpo piegato sotto il peso di un’insanabile delusione, le spalle un po’ incurvate, le mani umilmente raccolte davanti. Come Eduardo, appunto, Saverio sa usare un alfabeto di piccoli gesti allusivi, in grado di arrivare dove non arriva la parola. Come Eduardo, manifesta un affetto per i suoi personaggi che è il riflesso di una più alta comprensione per l’uomo. E il suo dialetto è un impasto morbido e duttile, come una musica interiore.

Corriere della Sera – Magda Poli – 19/09/2012
È uno spettacolo che con semplicità, amalgamata a una lievità coinvolgente che sa trasformarsi in ficcanti «a fondo» nella ragione, nel cuore, nella coscienza, racconta in apparente tono minore, in realtà in un urlo di sentimenti trattenuti e calpestati, l’orrore delle dittature, narra di vite annientate solo per essere nate nel posto sbagliato. Parla di destini di pena, di pesante rassegnazione, annichilimento di uomini che non sono che piccole, miserevoli cose dai contorni indefiniti, i nemici. Sono gli «Italianesi » (al Piacenza Festival), non fusione di parole bensì preciso segno di un «non essere»: né Italiani né Albanesi. È l’ultimo struggente spettacolo di uno straordinario Saverio La Ruina (foto), che partendo dalla storia del mite Tonino narra quella sepolta, ignorata, vergognosa di migliaia di soldati e civili italiani, mandati in Albania dalla dittatura mussoliniana che a fine guerra rimangono là, «intrappolati» da un’altra dittatura che li espelle, li divide, li interna, compresi donne e bambini: i nemici. Per Tonino, nato nel 1951 che ha imparato da un sarto calabrese il mestiere e «l’italiano», l’orizzonte è stato per 40 vessati anni, un filo spinato e quando tornerà in Italia sulle tracce del padre, si sentirà uno straniero, un non voluto perché la sola sua presenza disturba, obbliga alla riflessione, suscita colpe, evoca errori, orrori e infamità. Saverio La Ruina, in una lingua calda e pastosa che scivola in un dolce accento, con la sua capacità di lettura antropologica, con il suo senso della poesia e del ritmo, da vita a un monologo che proprio perché porto con una mitezza disarmante, con i toni sfumati e lievi dell’acquarello, riesce ad acquistare la forza di un’incisione di Goya. Il suo Tonino è un uomo remissivo, di quell’ingenuità che non sa vedere il male nella sua interezza e crede e spera, mantenendo sempre saldo il timone della sua calda umanità.

la Repubblica – Anna Bandettini – 04/12/2011
Tonino, l’italiano “albanese” in un bel lavoro di Saverio La Ruina. A conclusione (o forse no), di una sua vicenda professionale originale, scandita da due monologhi di grande successo come La Borto e Dissonorata, Saverio La Ruina approda a un nuovo spettacolo, un altro itinerario soggettivo ugualmente bello e commovente. Se negli altri due, in ruoli di donna, svelava un universo femminile marginale ma di riscatto, in Italianesi, fino a ieri all’India di Roma, sempre prodotto da Scena Verticale, è Tonino, un 40enne cresciuto nei campi di concentramento albanesi, come molte migliaia di altri italiani, soldati e civili, che alla fine della seconda guerra mondiale rimasero “intrappolati” in Albania. Sottoposti a torture e lavori forzati, vissero nel sogno dell’Italia dove, una volta arrivati, vennero sempre considerati stranieri. Una storia umana bella, che in pantaloni di flanella grigia, gilerino blu, La Ruina dice con tempi lenti, gesti precisi: una grande recitazione che eleva il racconto a una dimensione fortemente simbolica. Che è quello che lo rende speciale. (da non mancare) °°°°°°

la Repubblica.it – Post Teatro – Anna Bandettini – 02/02/2012
Italianesi. Ecco come si racconta la storia Non perdete Italianesi, in questi giorni al Crt di Milano. E’ il nuovo spettacolo di Saverio La Ruina, l’attore di Scena Verticale, il gruppo calabrese che è emerso in questi anni come una delle più interessanti realtà teatrali italiane. […] La storia è commovente, dolente, bella perché il protagonista è un piccolo grande uomo, eroico nella sua semplicità e verità e perché semplice e vero è anche lo spettacolo come è nello stile di Scena Verticale: musiche originali di Roberto Cherillo, disegno luci di Dario De Luca e Saverio La Ruina solo in scena che dà ritmo e respiro al suo racconto con espressioni, gesti, sguardi minimali e precisi, il dialetto e la cadenza calabrese non per fare macchiette, ma per radicare i propri personaggi in una verità. Un’autentica forza.

il Manifesto – Gianfranco Capitta – 04/12/2011
Italianesi – L’Italia sognata di qua del mare. Esiste una modernità sperimentale anche nell’andare a osservare nelle pieghe della provincia comportamenti, tipologie e fatti che hanno un senso fortissimo, e sono legati in maniera fulminante alla grande Storia del paese, della sua cultura, e anche dell’Europa, in questa ricerca si è mosso da maestro da alcuni anni Saverio La Ruina, dedicato ormai a una via solitaria di autore e interprete, pur mantenendo radici forti nella sua Calabria, dove ha fatto, con Dario De Luca e la loro Scena Verticale, un osservatorio imprescindibile della rassegna Primavera dei teatri. Alla sua terza provo di monologo (dopo il successo di Dissonorata e più recentemente di La Borto, esplorazioni al femminile nei pregiudizi di tutti i sud d’Italia) La Ruina ci spiazza quasi, ripercorrendo la vicenda di alcuni Italianesi(oggi ancora all’India poi in tournée), ovvero coloro che prigionieri di guerra dall’epoca fascista, o loro discendenti, sono considerati «albanesi» in Italia e «italiani» dall’altra parte dell’Adriatico. Un destino atroce e destinato all’infelicità. L’attore usa una lingua bellissima, un calabrese musicale che ogni tanto scopre degli spigoli, e fa iniziare il racconto della bolsa e sanguinosa manìa di grandezza del duce che voleva farsi un impero per lui e per l’imbelle Savoia. E l’ingenuità affettuosa delle creature narrate, non fa che render ancor più deliranti quei sogni. Che poi si tramutano in «campi», di prigionia e concentramento per migliaia di italiani, finché l’intera Albania sarà un enorme territorio chiuso e blindato con tutti gli albanesi dentro, per i deliri di Hoxa. Tra genealogie ardimentose da seguire, particolari che suonano come pugni nello stomaco, e quella loro incrollabile ingenuità, i personaggi raccontati da La Ruina sembrano resistere ad goni smottamento. La vera voragine si apre nel loro cuore nel momento in cui cercheranno di riannodare i fili e le ascendenze della propria vita, fino allo sperduto paesino sardo dove abita il padre che fu soldato di spedizione in Albania. Ma poiché la vita non è una trasmissione di Maria De Filippi (per fortuna) quel figlio d’amore e di guerra sarà rifiutato, come un estraneo, e se ne tornerà a fare il sarto in Calabria dove altre parentele l’avranno portato. Una storia molto bella e robusta, scritta molto bene. E Saverio La Ruina è un raccontatore fantastico, discreto ma ineludibile con i suoi affondi. Resta ancor di più il dubbio su quale teatro sarebbe capace di darci, fuori dei suoi meravigliosi racconti.

Myword.it – Maria Grazia Gregori – 02/02/2012
Un testo sorprendente che racconta una storia sconosciuta e l’interpretazione magistrale di Saverio La Ruina rendono questa narrazione imperdibile. Vedere Saverio La Ruina in scena non solo è un’emozione, non solo ci commuove, ma fa nascere nello spettatore la sensazione di trovarsi di fronte a un modo di fare teatro del tutto necessario. Sarà per l’estrema naturalezza della sua presenza scenica – sembra niente ma nasce invece da una bravura addirittura mostruosa – sarà per la misura con la quale costruisce la sua storia, sarà per la semplicità con la quale la racconta: non ci si può fare niente – noi e lui –, è così. E pensare che le sue storie non sono mai scritte e recitate per stupire e affascinare, il suo modo di fare teatro è quasi elementare: lui, una sedia, la luce, un accompagnamento musicale in grado di dilatare la parola arricchendola di assonanze, non un ornamento ma un alter ego fondamentale per la sua narrazione. Insomma: quattro tavole e una passione come diceva Lope de Vega. I personaggi di La Ruina nascono da uno studio comportamentale, da una valenza antropologica, dall’osservazione della realtà, dal bisogno di dare vita a qualcosa che lo ha colpito, che non resta però chiuso nell’esclusivo cerchio della sua sensibilità, ma che si trasforma, grazie al suo modo di essere attore, alla sua capacità affabulatoria in qualcosa che ci riguarda. È successo con Dissonorata, con La Borto, e oggi tutto questo si ripete con Italianesi: se nei primi due si indagava sulla condizione femminile in Meridione, in quest’ultimo testo Saverio gira pagina, cambia decisamente direzione. Da un io indifeso, dalla dignità calpestata dei primi due lavori che l’hanno fatto conoscere al di là dei confini della Calabria, giunge qui a uno sguardo più consapevole, più profondo verso un dramma praticamente sconosciuto, che attraverso la riflessione, la sorpresa, la rabbia per le ingiustizie patite dai personaggi di cui racconta trasforma la storia di un singolo nella storia di molti. […] Saverio La Ruina ci rivela una realtà terribile, una condizione di infelicità e un carico di dolore insopportabili in un italiano dolce con l’accento del Sud e non in dialetto calabrese come negli spettacoli precedenti perché questa è una storia che supera i confini, per diventare vita di una parte non piccola di gente che si è trovata a pagare colpe non sue. Lo fa con estremo pudore: un uomo solo in scena, la voce chiara, il gesto misurato, un’interpretazione formidabile. Da non perdere.

il Mattino – Enrico Fiore – 28/01/2012
Gli “Italianesi”di La Ruina echi di un incubo coloniale. La splendida sostanza drammaturgica di “Italianesi”, lo spettacolo che Saverio La Ruina presenta alla Galleria Toledo, consiste nello scarto tra l’immane tragedia subita dai personaggi qui evocati e la quotidianità minima di cui è atta la loro vita: basta considerare il maniacale sproloqui che in apertura il protagonista, un sarto che ha passato quarant’ani in un campo di prigionia, scarica sugli spettatori circa i risvolti e la lunghezza ideali dei pantaloni. Quel sarto viene chiamato Tonino Cantisani, e in lui si condensano le vicende,stavolta verissime, delle migliaia di italiani che rimasero intrappolati in Albania alla fine della seconda guerra mondiale: là italiani, per l’appunto, e in quanto tali perseguitati come spie fasciste; e da noi, quando riuscivano a tornare, emarginati come albanesi e quindi “diversi”. Insomma, né italiani né albanesi, soltanto degli ibridi fantasmatici appena degni, giusto, del nome “italianesi”. La poesia dello spettacolo, smarrita e tuttavia indomita, sta invece negli sforzi che i personaggi, privati dell’identità, compiono senza sosta per rivestire di “carne” i fantasmi a cui si son ridotti: una “carne” che è quella, senza sangue, delle illusioni partorite giorno dopo giorno per non annegare nella disperazione. Saranno, per fare solo due esempi, l’illusione dell’Italia sognata come un eldorado o l’illusione di Tonino che il padre, tornato in Italia prima che lui nascesse in Albania, possa riconoscerlo e amarlo come se gli fosse stato sempre accanto. In breve – nel solco di una coerenza di scrittura esemplare – questi “italianesi” si rivelano come parenti stretti delle donne calabresi protagoniste di “Dissonorata” e “La Borto”, i due lavori precedenti che hanno imposto Saverio La Ruina all’attenzione del pubblico e della critica: poiché, al pari di quelle, scontano la privazione della dignità, la negazione del loro diritto a esistere in quanto persone. Eccellente, infine, anche la prova che La Ruina fornisce come attore, accompagnato dalla musiche dal vivo di Roberto Cherillo. Uno spettacolo da non perdere.

Internazionale.it – Goffredo Fofi – 29/05/2011
Nella patria dei dialetti e di Gadda la lingua comune dei romanzieri è solitamente piatta e giornalistica, e la sua sperimentazione è lasciata semmai a un teatro non centrale e raro (ai primi posti il calabrese Saverio La Ruina e la siciliana Emma Dante). È un segno anche questo dell’omologazione e della mercificazione, che riguarda però anche la letteratura mondiale: sono pochi gli scrittori che sembrano resistere agli obblighi di una produzione mercificata, e che cercano, inventano. costruiscono. Che non preferiscono la facile traducibilità. […]

Avvenire – Domenico Rigotti – 02/12/2012
Parlano gli italiani dimenticati d’Albania Le storie che ci racconta Saverio La Ruina lasciano sempre un segno profondo. Perché storie vere, autentiche, di persone incontrate realmente, ascoltate e poi fatte carne della propria carne. A parlare con una lingua viva e bruciante. Finora erano storie di donne del profondo sud, “dissonorate”, vittime di una società ancora feudale. Ora, questo straordinario affabulatore che fa del teatro una vera mistica, rivolge il suo sguardo sull’altro fronte, quello maschile e torna a ferire la nostra coscienza con un personaggio la cui vicenda potrebbe essere simile a quella di tanti altri suoi fratelli. È il protagonista di questa sua ultima e bellissima prova che, tappa dietro tappa, va girando per la penisola ottenendo largo successo […] Struggente, toccante è il racconto sapientemente costruito e vissuto col sentimento più ardente. Di una scrittura limpida e pulita che si avvicina alla purezza di certi grandi narratori russi, del Garscin ad esempio del bellissimo Il fiore rosso. Ma se la storia è importante e straziante e la drammaturgia meditatissima, a colpire è soprattutto la sensibilità teatrale con cui questo straordinario attore la porge allo spettatore perché essa si radichi nella sua coscienza. La sua recitazione tutta sussurri dolcissimi, silenzi, sguardi bassi e improvvisi sussulti d’orgoglio. Basata anche su una economia di gesti che però ramificano e si collegano alla perfezione con le parole. Insomma una grazia che nasce dalla profondità del cuore. Davvero Italianesi, una partitura millimetrica, un incantevole e malinconico “lieder” di emozioni e sfumature che non ci lascia indifferenti.

La Stampa – Osvaldo Guerrieri – 01/07/2012
Italianesi, tragedia al suono di “carillon” Prima di approdare con una propria “personale” ad Astiteatro, Saverio La Ruina ha chiuso il Festival delle Colline con il pezzo portato giovedì scorso ad Asti, un monologo la cui leggerezza non minimizza un dramma misconosciuto della Storia. […] Com’è soffice la narrazione di La Ruina.Il suo personaggio zoppica (un poliziotto gli ha spaccato il ginocchio per sapere da lui chissà cosa), nel campo fa il sarto, è famoso per una sua infallibilità nello scegliere i colori, ha conquistato una ragazza dicendole4 che è lei il colore che gli manca, è sentimentale, sognatore ma fermo nelle sue certezze. La Ruina recita con la musicalità di un carillon, ma guardatelo alla fine, quando prende coscienza del suo sradicamento e pietrifica la dolcezza nei ripetuti “no”, “no”: magnifico.

l’Unità – Rossella Battisti – 21/12/2011
Quell’«italianese» che nutriva il sogno di tornare in patria. Saverio La Ruina, interprete a teatro di una toccante pagina di storia rimossa dai libri: i figli dei nostri soldati in Albania. […] Saverio La Ruina, esplora un teatro da camera con assoli molto parlati, dove va collezionando personaggi umili e minori. […] Se nei contenuti lo spettacolo potrebbe essere accostato a certo genere civile e di denuncia, Saverio La Ruina riesce a emanciparlo da un filone che sta esaurendo la sua efficacia narrativa, per trasformarlo in una prova d’attore intensa e dolente. La sua recitazione, già molto raccolta e minuta, procede in levare, si nutre di piccoli tocchi, cenni lievi del capo e della mano, che liscia invisibili grinze dell’animo e parla per gesti della solitudine degli ultimi. Il racconto è un sussurro, dove i ricordi affiorano carsici e subito riaffondano in una pena del cuore più mostrata che detta. È in questo grumo di parole sottovoce, nella ragnatela di microespressioni che La Ruina cattura i suoi spettatori/ascoltatori. Conquistandoli a una nuova tappa del suo percorso, stavolta in panni maschili dopo le struggenti figure femminili presentate in Dissonorata e La Borto (entrambi premiate con l’Ubu).

Libero – Carlo Maria Pensa – 09/02/2012
Un destino da straniero. Italiano in Albania, “albanese” in Italia. I due monologhi, di cui lo stesso autore, si è fatto conoscere, qualche stagione fa, Saverio La Ruina impersonando figure femminili: in Dissonorata era Pasqualina, ragazza calabrese condannata a morte dalla famiglia perché incinta ma abbandonata dal suo seduttore; in La borto, la tredicenne Vittoria che un bestiale marito mette incinta sette volte e sette volte diventa madre, finchè per vendetta, alcuni anni dopo, sarà lei ad accompagnare sua nipote in una clinica per farla abortire. Nel suo nuovo spettacolo, Italianesi, che si sta replicando al teatro dell’Arte di Milano, La Ruina si fa uomo, un quarantenne cresciuto nei campi di concentramento albanesi, dove, alla fine della seconda guerra mondiale migliaia di italiani erano imprigionati e costretti ai lavori forzati, sempre ma invano sperando di vivere in Italia: dove poi, quando arrivarono, furono considerati stranieri. Stranieri là come stranieri qua. Tonino vive e, con la poesia della sua lingua velata dal dialetto calabrese, racconta la sua storia che è la storia di tanti italiani; fino a quando riesce a riannodarsi alle sue origini, nel paese della Sardegna cui si lega il mito del padre. Ma anche qui è respinto come un immigrato estraneo. Italiano in Albania, albanese in Italia. Un viaggio nella memoria di una realtà, che commuove e che La Ruina riesce a ricreare come un dramma irresistibile.

la Repubblica Milano – Sara Chiappori – 03/02/2012
La potenza del dialetto e il fascino dei silenzi Lo dice una signora, a fine spettacolo. Ha sfidato la neve per venire a vederlo perché Saverio La Ruina è « il più bravo di tutti, l’attore con la A maiuscola». E siccome stiamo parlando di un teatrante schivo, pudico, che arriva da una Calabria non proprio caput mundi dello show business, non c’è sospetto di fascinazione da star. La Ruina questa volta ci racconta uno di quei capitoli che la storia rimuove: non è epico, non è eroico, non è funzionale alle narrazioni retoriche. […] Questa storiaccia ce la racconta Tonino il sarto […] Non alza mai la voce, Tonino, non urla e non inveisce, ma su quel corpo claudicante, su quelle mani che circoscrivono piccoli mondi pieni di strazio, su quel modo di procedere tra le pause, si disegnano tutta la disperazione e la dignità di un semplice al cospetto degli scherzi crudeli della storia. Il solito teatro civile di narrazione, penserà qualcuno. E invece no, l’esatto contrario: teatro e basta, quello di La Ruina. Maglioncino dimesso, pantaloni demodé, una sedia in uno spazio per il resto immensamente vuoto. Non gli serve altro per far agire l’urgenza del racconto, la potenza della lingua che riverbera un calabrese aspro e dolcissimo, la sapienza precisa dei silenzi, il cesello minuto del gesto, la polifonia dei ritmi, il coraggio della sottrazione per distillare la sfumatura impercettibile, quella che fa la differenza tra un semplice spettacolo e l’emozione di un rito condiviso. Il suo Tonino, come già le due straordinarie figure femminili dei precedenti Dissonorata e La borto, tutte voci di un sorprendente atlante degli umiliati e offesi, non è un personaggio, è un’esperienza. Molto concreta quindi simbolica. Cioè quello che dovrebbe essere il teatro.

BoBlog, Corriere di Bologna – Massimo Marino – 07/08/2012
[…] Saverio La Ruina. Questo attore calabrese, fondatore del gruppo Scena Verticale di Castrovillari, è ormai al terzo intenso, colloquiale monologo, che risalta particolarmente nella vicinanza salottiera di questa serata. Con Dissonorata aveva raccontato uno stupro, indossando in modo straniato i panni di una donna; aveva continuato a dare voce sensibile a un’altra figura femminile avvilita dalla violenza di una società patriarcale con La Borto. Ora in Italianesi, uno spettacolo da non perdere, diventa un sarto che interloquisce, con squisita, disarmata gentilezza con il pubblico, raccontando la vicenda dimenticata degli italiani d’Albania. La voce si modula in tonalità familiari, quasi con l’impaccio di chi non vorrebbe arrecare disturbo all’interlocutore, che viene però con tale garbo trascinato in una storia terribile e rimossa. […] La Ruina, con dolcezza inerme, materializza un dramma della mancanza d’identità, portandoci in un’altra terra di mezzo, dove l’individuo deve resistere alla scoperta deflagrante (e molto contemporanea) di non avere nessuna radice, nessuna certezza, neppure illusoria. Lo fa con ammiccamenti, rallentamenti, flautando la voce, guardando negli occhi: scoprendosi, apparentemente, al massimo, per gettare poi, con pause devastanti, la bonomia creata nel baratro, e far intravedere, sempre con quella sprezzatura dolce incrinata da una sofferenza ineffabile, la possibilità di andare avanti, nonostante tutto, e resistere.

Corriere di Bologna – Massimo Marino – 07.08.2012
[…] Si chiudeva con quel fenomeno che è Saverio La Ruina in Italianesi, storia dolente, di grande fascino e umanità, degli italiani rimasti prigionieri in Albania per quarant’anni dopo la guerra: una lezione di recitazione in cui, anche grazie alla vicinanza, ogni pausa, feriva, teneva col fiato sospeso, conquistava. […]

La Repubblica Napoli – Giulio Baffi – 08/11/2017
[…] i suoi personaggi, donne non sconfitte ma profondamente ferite quelle di “Dissonorata” e “La Borto”, si confrontano con realtà dure di una provincia molte volte ottusa del Sud Italia, donne e uomini che non si danno per vinti, che combattono le loro vite cercando fughe in avanti e piccole ribellioni, con il sarto di “Italianesi” ha composto un trittico memorabile […]

Hystrio – Katia Ippaso – gennaio 2012
Italiani d’Albania, albanesi d’Italia. Quando la Storia rimuove le sue tragedie Non è semplice raccontare la forza icastica della semplicità. Specialmente se a incarnarla è un artista come Saverio La Ruina. Forse si può cominciare dalla fine, dal modo un po’ sorpreso e sospeso, estremamente consapevole, con cui l’attore-drammaturgo-regista prende gli applausi, dall’attenzione che riserva a ogni persona che lo va a salutare, da quel suo chiedere all’altro di altro. Una mia cara amica attrice e scrittrice (Cinzia Villari) gli dice nel foyer del Teatro India: «Sei il più bravo». Lui la guarda come se non avesse compreso, poi risponde: «Me lo ricorderò, nei momenti di difficoltà, quando ne avrò bisogno». È una scena fuori scena, che però adesso mi serve ad avvicinarmi alla scena così come fa lui, Saverio, di soppiatto. Italianesi è uno spettacolo meraviglioso e lui, Saverio, è il più bravo. Ha ragione la mia amica. Ma perché? L’elemento sconvolgente non è nella storia, che pure è originale e fa riferimento a una tragedia rimossa dai libri di storia: i campi di prigionia in Albania dove furono rinchiusi, torturati e condannati ai lavori forzati tutti coloro che il regime dittatoriale giudicò nemici politici. […] La grandezza è nel modo con cui l’interprete porge le parole al suo pubblico, in un tono sommesso, con una grazia che crea in platea un movimento di vento caldo, capace di entrare nelle ossa e provocare una ferita senza sangue. A memoria, dai tempi di Eduardo De Filippo non si vedeva un uso così sapiente della pausa recitativa, che diventa precoce invecchiamento, presagio, tempesta interiore.

Venezia Musica – Leonardo Mello – marzo-aprile 2012
“Italianesi”, un nuovo capolavoro Si può proprio dire che Saverio La Ruina non sbaglia un colpo. Dopo gli splendidi affreschi femminili di Dissonorata e La borto, eccolo tornare in scena con un altro monologo, Italianesi, questa volta nei panni di un personaggio maschile. […] l’autore-attore, solo in scena con una sedia che prende via via a rappresentare le situazioni e le cose più varie, dà voce con il consueto rigore e con rinnovata, emozionante bravura. Trattando un tema così delicato, il rischio era forse quello della retorica, ma Saverio veleggia molto lontano dalle sue insidiose coste. Ed ecco nascere, come sempre nel suo teatro, tante figure che accompagnano il protagonista nel suo peregrinare alla ricerca di una libertà e di una patria – l’Italia – che si rivelerà matrigna e inospitale con lui, la moglie e i figli. Nella recitazione di quella che è una vera e propria partitura, l’artista calabrese mescola lacrime e momenti comici, senza oltrepassare mai, nella commozione, la linea di uno stile patetico ma controllato che colpisce al cuore lo spettatore. Anche grazie alle atmosfere sonore di Roberto Cherillo (che è in scena ma non si mostra fino alla fine, al contrario degli altri due spettacoli) il pubblico «vede» quello che viene raccontato […] spettacolo straordinario, ospitato al Teatro Ca’ Foscari Santa Marta dopo la prima nazionale di novembre al Teatro India […]

Gazzetta di Parma – Valeria Ottolenghi – 04/02/2013
Una recitazione quieta e intensissima, pacata, musicale ed emotivamente toccante, che apre orizzonti di conoscenza, storia dimenticata, raccontando di una persona sola, il personaggio in scena, che rievoca, a frammenti, con continui ritorni, un’intima circolarità ritmica, commovente, della sua vita […] Magnifico Saverio La Ruina, che ha meritato il Premio Ubu quale migliore attore proprio per questa interpretazione, un’opera di cui è anche autore, così come per i due precedenti capolavori, «Dissonorata» e «La Borto». Prezioso anche il lavoro sulla lingua, ogni volta diverso, un calabrese colmo di molte sfumature e intensità espressive. In «Italianesi» – visto al Teatro al Parco – la dizione è semplice, piana, un italiano imparato quasi come lingua straniera, lentamente, con uno sforzo di volontà, da «mastu Giovannu», il sarto del campo, da cui anche lui aveva imparato il mestiere, un lavoro manuale tra stoffe di molti colori. […] I gesti stilizzati. Dialogando a tratti più vicino al pubblico, come per spiegare meglio. Alcune emozioni così intimamente esplosive da essere intraducibili a parole: incredibile, stupefacente, davvero indicibile, la sensazione di essere libero.

Il Piccolo di Trieste – Roberto Canziani – 28/11/2012
[…] “Italianesi” riconferma una speciale sensibilità di interprete, e le doti di un ‘narratore’ capace di convogliare in platea emozioni intense.

Linkiesta – Andrea Porcheddu – 14/11/2012
[…] Ma di identità si parla anche nel bellissimo e toccante Italianesi, scritto e interpretato dallo stesso La Ruina, che indaga la memoria degli italiani rimasti prigionieri in Albania dopo la Seconda guerra mondiale. Una tragedia dimenticata, amara, scomoda, che La Ruina racconta con garbo, quasi in intimità, nella sua bella cadenza calabrese. Lo spettacolo è commovente, delicato, leggero e aspro come una storia d’amore. Svela un mondo, delle vite di cui si sapeva poco e nulla: troppo “albanesi” per stare in Italia, troppo “italiani” (e quindi “fascisti”) per stare in Albania. […]

Unibo.it, Dipartimento Arti Visive, Performative, Mediali – Gerardo Guccini – marzo 2018
Il monologare di Saverio La Ruina conferisce voce e straniata presenza a memorabili identità corali: la donna sottomessa, la donna ribelle, il deportato di guerra, l’omosessuale.

Bolognateatri.net – Gerardo Guccini – 14 marzo 2018
Ricordiamo innanzitutto Saverio La Ruina, che figura nel panorama nazionale come un artista che ha fatto precipitare la narrazione nel personaggio, un procedimento non sarebbe stato possibile in assenza di un dialetto dominato e vivo, capace di aggregare dentro sé presenze identitarie.

Teatro e Critica – Simone Nebbia – 04/12/2011
Italianesi di Saverio La Ruina: storie vere degli “immigranti” “Ma mamma io, per dirti il vero, l’italiano non so cosa sia, e pure se attraverso il mondo non conosco la geografia”. Di queste parole Francesco De Gregori vestiva L’abbigliamento di un fuochista, di queste parole suona uno strano sentimento di patria a tradimento, ignota e mai conquistata, patria di sangue diluita nei viaggi e nelle occasioni, ascoltando Saverio La Ruina di Scena Verticale che porta in scena il suo nuovo monologo, da sé scritto e apprezzatissimo all’ultimo Premio Riccione 2011, dal titolo Italianesi. […] Non c’è bisogno di scriverlo sulla scheda (ma c’è), quanto sia ispirato a storie vere. Quel che colpisce però è l’uso del plurale, là dove solito è l’uso al singolare: storie vere, la pluralità compone un disegno molto più preciso perché fa pensare ai nomi collettivi come popolo, gente, tutti quegli appellativi cheridotti nel singolare non ce la fanno comunque, a non contenere una moltitudine. Questa è la forza che La Ruina è in grado di innescare: nelle sue parole vive una voce che ne amplifica mille altre, sopite dal tempo e dalla dimenticanza. Un lieve difetto fisico, quasi impercettibile zoppia alla gamba destra, e l’amore per lo sport (ancora, collettivo); poi i capelli sistemati alla meglio ma liberi da una pettinatura astringente, il maglioncino a V rosso sulla camicia bianca, la cravatta stretta stretta, i suoi gesti e le espressioni del volto dicono ancora una volta, dopo Dissonorata, dopo La Borto, che Saverio La Ruinaè uno degli attori più bravi che l’Italia possa vantare (e mai se ne vanta…), una sorta di macchina attoriale che dona alla materia ogni cosa di lui, che nobilita, rende viva la poesia della scena: vederlo in certi momenti stimola quella meraviglia, come seguendo la famosa farfalla fuggita di Marcel Marceau. Gli elementi sulla scena sono davvero pochi, ma l’uso è sapiente: l’accentramento dello sguardo su quella sedia che si volge ora da un lato ora dall’altro, il rettangolo di luce che disegna una geometria precisa nel nero attorno (le luci sono di Dario De Luca), dietro un fondale di nebbia appena percepibile la musica trapunta dal vivo di Roberto Cherillo, le ombre sulle pareti laterali dell’uomo e della sedia che si allontanano e si avvicinano, entrambe ingigantite, quel tono sommesso che è suo segno distintivo e sempre di estremo calore intimo. […] La Ruina ha una qualità innata di costruire drammaturgie dove immagina mondi concreti e visibili, ma non per questo poveri di quella poesia popolare, che in questo caso è un’affermazione di italianità dal più in basso possibile. […]

Dalla motivazione del Premio Enriquez 2012  – Premio per la drammaturgia 2012
“Italianesi” è un monologo capolavoro […]

Krapp’s Last Post – Simone Pacini – 12/12/2011
Saverio La Ruina: Italianesi in cerca d’identità E finalmente, dopo mesi di sperimentazioni di nuovi linguaggi e performance multimediali, il teatro! Finalmente, dopo la dittatura del video e del suono e della tecnologia, la scrittura! Ci voleva Saverio La Ruina per farmi rientrare in contatto con un teatro semplice e diretto, impegnato e coinvolgente. […] Come accaduto nei precedenti lavori “Dissonorata” e “La Borto”, La Ruina parte dalla lingua per costruire la sua immedesimazione nel personaggio. Anche Tonino fa il sarto nel campo di concentramento, e vive nell’attesa di avere la possibilità di volare verso l’Italia per raggiungere il padre mai conosciuto. Sogna aerei, città d’arte e musica. Il personalissimo omaggio alle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia di La Ruina prende parte alla Storia attraverso un racconto poco conosciuto ma emblematico, che deve far riflettere sul nostro approccio ai flussi migratori di oggi. Padrone della sua lingua, La Ruina padroneggia anche il suo corpo, facendolo diventare quello di un sarto ingenuo e illuso che ha a che fare con la dittatura albanese. Il mito dell’Italia però gli si scaglierà contro. Nei suoi umili panni di sarto, zoppo a una gamba, La Ruina è decisamente credibile. Incespica sui suoi passi e si aggrappa all’unica sedia che compone la scenografia. Siamo di fronte al corpo come emblema di una tragedia sconosciuta, esempio di vittima dimenticata. Ma il capolavoro di La Ruina, una volta messi a punto voce e corpo, sta nella scrittura. La drammaturgia è precisa, i numerosi salti temporali descrivono bene una storia non semplice da raccontare perché così lontana e dimenticata. E nei passaggi fra macro e micro storia, fra globale e locale, fra politica e vita privata ecco la parte più riuscita dello spettacolo, quella dove gli spettatori possono accostarsi a una vicenda assurda e paradossale da far drammaticamente riflettere. Oltre a questo, un’occasione per osservare con un occhio diverso e romantico il tanto criticato e avversato Belpaese. Nazione che, forse come nessun’altra in Europa, non è amata dal suo popolo, per ragioni a volte giuste ma che spesso sfociano nell’ideologia. La stessa ideologia che ha rinchiuso per 40 anni Tonino e la sua famiglia lontani dal padre e dall’Italia.

Krapp’s Last Post – Emilio Nigro – 10/11/2012
Italianesi di e con Saverio La Ruina ha aperto il serale di sabato, terza giornata di festival. Una storia (non) comune, paradossale nella sua semplicità: quella di un uomo nato, cresciuto e sposato in un campo di concentramento albanese da prigioniero italiano e considerato albanese al suo ritorno in Italia. Un uomo senza identità se non quella cucita addosso da un destino crudele, beffardo, le cui grinfie, tuttavia, non sono intervenute sui sogni, sul talento, sul coraggio, sulla dignità, sull’orgoglio di essere solo un uomo. E quest’uomo, La Ruina lo incarna con delicatezza e leggerezza, ma con il vigore del pathos fatto materia, lacrime, ipnosi. Saverio è uno dei migliori d’Italia, ad attestarlo è una teca piena di riconoscimenti (tra cui un Ubu) e applausi scroscianti in mezzo mondo. Scroscianti come quelli di sabato scorso ad una prova che rappresenta quello che si dovrebbe rispondere quando ci si domanda cosa sia il teatro. Un teatro povero, dove la parola è riempitivo della scena nuda attorno. Che si fa evocato e disegna scenari invisibili, che si fa groppo in gola e umidiccio sugli occhi. La parola, adornata da mimica essenziale e tratteggio del personaggio in policromia, che si fa emozione. Si potrebbe continuare a lungo dettagliando minuziosamente come fa La Ruina in scena, non lasciando banale nemmeno un aggrottarsi di sopracciglio, ma quando si dice che il teatro emoziona, si è detto tutto.

Il Tamburo di Kattrin – Camilla Toso – 15/12/2011 
A due anni dall’ultimo spettacolo, quando ci si aspettava ormai un ritorno alla coralità della compagnia Scena Verticale, ecco debuttare Italianesi. In scena Saverio La Ruina, dopo l’acclamatissimo Dissonorata e il toccante La Borto, un nuovo testo, una nuova sedia, un nuovo personaggio: questa volta un uomo. Negli ultimi sei anni lo abbiamo visto vestire panni di donna, per racconti strazianti – delitti d’onore, stupri, violenze e gravidanze interrotte – che hanno lasciato le platee italiane e straniere con il cuore sospeso e le lacrime agli occhi. Le storie alla base dei testi di La Ruina sono sempre vere, di persone incontrate realmente, sentite raccontare direttamente dalla bocca di chi le ha vissute. Così è stato anche per Italianesi, una vicenda incrociata per caso guardando la televisione su cui il drammaturgo ha voluto indagare, conoscere, scoprire ogni particolare, fino ad arrivare a portarne in scena una versione personale e in qualche modo universale. […] In scena il protagonista racconta e rivive: memoria e ricordo queste sono, forse, le chiavi (anche tecniche) della narrazione di La Ruina, che sembra appoggiarsi proprio sulla memoria fisica dei caratteri che indaga. Impossibile per uno spettatore che conosca già i suoi lavori non fare paragoni e non mettere in rapporto diretto i precedenti personaggi femminili con quest’ultimo maschile. Il legame strettissimo che unisce il protagonista, la sua gestualità e la tecnica narrativa dell’attore sono così inscindibili che è difficile dire quale elemento sia frutto del lavoro sul personaggio e quale invece sia un espediente tecnico, un’ancora a cui si appoggia l’attore. O per meglio dire: il carattere permea così tanto la narrazione che sembra pressoché impossibile stabilire quale sia “lo stile” dell’autore e quale invece la maschera del personaggio. Con Italianesi però avviene uno scarto: il genere maschile del protagonista permette di riconoscere tratti caratteristici di quello che ora possiamo identificare come lo stile narrativo di La Ruina e che in precedenza avevamo attribuito alle donne delle sue interpretazioni. Qualche traccia, piccoli indizi: una cadenza nella voce, un gesto ricorrente, un uso particolare delle mani, tratti che sono rimasti ed emergono dal nuovo personaggio. Ma al di là di ogni congettura, lo spettacolo scorre, coinvolge; le musiche dal vivo di Roberto Cherillo si fondono con il racconto portando poesia e sonorità balcaniche. La stessa accuratezza la traspone La Ruina nel linguaggio, passando da una lingua stentata al calabrese, perché il dialetto era l’unico italiano che gli uomini del campo conoscevano, “ché l’italiano vero lo parlano solo i dottori”. L’interpretazione di La Ruina resta ancora tra le più vivide della scena nazionale, mostrando una narrazione che narrazione non è, un teatro attoriale, che attoriale non è, ma sublimando i due a un livello altissimo.

Pane e Acqua – Renzo Francabandera – 08/02/2012
Saverio la Ruina e una sedia. Ormai siamo abituati a vederlo così, lui e i suoi personaggi dall’incedere impedito. Chi fermo, inchiodato al suo stato, chi azzoppato nella sua condizione umana dal destino, chi dalla vita. Italianesi è una storia che come tutte le altre nasce al sud, trova ispirazione in quei numerosi paesi di cultura arbresh, albanese, che popolano l’entroterra calabrese, che secoli fa, durante le avanzate delle armate ottomane nella penisola balcanica, ospitarono gli esuli della terra delle aquile. Ma come sempre accade esistono anche i casi contrari, le storie degli italiani che, dopo che sull’Europa calò la cortina di ferro, rimasero prigionieri dall’altro lato dell’Adriatico, e che ritrovarono la libertà solo con la caduta del regime comunista. Il paradosso per loro fu che da quel momento in poi rimasero italiani per gli albanesi e albanesi per gli italiani: sono gli Italianesi di cui l’artista ci parla. […] un racconto che fra flashback, storie d’amore, viaggi e migrazioni, scandaglia con profondissimo senso del dolore e amore per la patria lontana il rapporto fra genitori e figli. La Ruina è, anche in questo personaggio, grandioso interprete dell’epopea degli ultimi, dimostra come narrare significhi dover ricercare, costruire drammaturgia con pazienza e sapienza, non fermarsi alle approssimazioni ma andare a svitare i bulloni che inchiodano il senso del pudore per raccontare le tragedie con la leggerezza delle favole e le favole con l’epica drammaticità delle tragedie. Ecco perché non serve null’altro che una sedia a questo teatro, e la cognizione del dolore e il senso di appartenenza che l’interprete restituisce ancor più si fanno grandiosi pensando ai giorni in cui questo lavoro è andato per la prima volta in scena, nelle settimane che hanno preceduto la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, in cui il postribolo del potere infangava con il suo puzzo il senso della memoria di quei molti che, anche se analfabeti, nullatenenti e sparsi per il mondo, da Ellis Island ai campi di concentramento albanesi, hanno continuato, ovunque fossero, a sentirsi “taliani”.

La Nuova Sardegna – Enrico Pau – 12/11/2012
Sogni mussoliniani L’incubo coloniale degli “Italianesi”. A “Sardegna dei teatri” il racconto degli italiani in Albania nella straordinaria interpretazione di Saverio La Ruina. […] uno spettacolo di rara intensità. Tante volte si è iniziata una cronaca teatrale scrivendo: un attore solo dentro una scena vuota, nuda. Una formula comoda per segnalare una tendenza del teatro contemporaneo a una povertà che è stata un tempo segno fortissimo della grande regia, ma altre volte più semplicemente è la risposta, necessaria, alla povertà a cui, il disinteresse della politica, delle istituzioni, costringono la nostra scena contemporanea. Ma, credete, la nudità del palco dove si aggira il personaggio a cui Saverio La Ruina regala la sua poetica fisicità è un palco pieno, straripante di forza, di immagini. Un raro esempio di “teatro corpo”, di corporeità dentro cui si condensano tanti segni che, è strano a dirsi, creano uno spazio scenico ricco come quello di un grande palcoscenico d’opera lirica. Sono tutte forme immaginarie, che solo l’attore con la sua bravura e la sua millimetrica precisione riescono ad evocare. La nudità del palco è riempita dalla sua fisicità, ma anche, singolarmente, dalla forza del racconto, dalla forza di una narrazione che rievoca un passato doloroso […] Per loro le pagine di quel grande libro rimangono sempre bianche. Solo ogni tanto arriva un grande attore, un narratore a rivelare, a fissare il tutto per sempre nella forma meravigliosa del linguaggio scenico. Storie come quella del sarto italiano profugo, prigioniero, uomo senza terra. Il ritratto è fatto di parole e il testo di La Ruina è straordinario perché si nutre di testimonianze vere raccolte in un lungo lavoro di preparazione che le ha portate alla forma finale. Ma quel ritratto trae la sua forza più grande dal lavoro fisico che l’attore porta sulla scena, trasformandosi, nel suo personaggio a cui regala piccoli tic, posture, una vocalità sommessa, mai urlata, una malinconia solida, invincibile, ma anche insieme, ed è strano, una distanza quasi“critica” dalla materia, una distanza che è lucida e insieme pesante. Che ha la forza del giudizio, e assieme, anche quello della condanna.

Giornale di Sicilia – Gigi Giacobbe – 18/03/2012
La Ruina racconta gli italiani apolidi d’Albania Basta una sedia a Saverio La Ruina per il suo teatro di parole che incantano e ipnotizzano, stavolta microfonate quasi per arrivare più a dentro nel cuore e nella mente degli spettatori incollati alla poltrona. È una storia, questa degli ltalianesi, da lui scritta-diretta-interpretata, come spesso accade, che non si trova sui libri di scuola. […] questa volta La Ruina, non più con abiti femminili ma con camicia bianca, cravatta, golfino bordeaux e pantaloni beige, racconta la storia di un tale Tonino, sarto, 40 anni. Che s’è trovato a vivere una storia incredibile, consumata a poche miglia dall’Italia, aldilà dell’Adriatico, in Albania. […] Tonino, sussurra La Ruina con la sua vocina e con la gamba destra zoppicante, nasce nel 1951 e il suo mitico padre, sardo d’origini, gli insegna il mestiere di sarto e sarà fra i primi a far ritorno in Italia. Invece Tonino, che intanto si sposerà e avrà figli, rimarrà a vivere con altre centinaia di connazionali in alloggi circondati da filo spinato, controllato dalla polizia segreta del regime, sottoposto a interrogatori, lavori forzati, torture. […] 75 minuti filati, con musiche dal vivo di Roberto Cherillo, da non perdere, in scena alla Sala Laudamo sino ad oggi pomeriggio, salutati alla fine da calorosissimi applausi.

Gazzetta del Sud – Anna Mallamo – 18/03/2012
“Italianesi”, uno nessuno e centomila Una pagina di Storia dimenticata nella vicenda minima e universale del sarto Tonino. Comincia dal titolo, “Italianesi”, l’invenzione di Saverio La Ruina: un’invenzione talmente nutrita da una tragica realtà storica e da mille vicende di vita vissuta che Saverio s’è fatto raccontare e raccontare – col suo modo tutto speciale e magnetico di assorbire e restituire storie – un’invenzione talmente trasformata dall’esigenza imperiosa della poesia, talmente sorretta da straordinarie capacità d’attore da risultare, sulla scena, potentissima. […] Anche stavolta il suo corpo esile è il luogo geometrico ed emozionale di vicende tragiche e luttuose; anche stavolta il suo personaggio, umile tra gli umili, è contrassegnato da un difetto fisico (è zoppo), una stimmata evidente che non è segno divino ma interamente umano. Quasi che ciascuno di noi fosse costruito attorno a una ferita originaria, e compito del teatro e dell’arte fosse trovare quella ferita, rivestirla di gesto e parola e porgercela, ferendoci un poco come fa ogni sera in scena La Ruina. […] Eppure, di Tonino non ci colpisce il coinvolgimento drammatico in enormi vicende d’oppressione e sterminio, quanto piuttosto la potenza e l’innocenza del cuore, la generosità dell’immaginazione, la caparbietà del bene, della speranza che si fa comunque strada, attraverso l’orrore e l’abbandono. Quell’unica goccia d’amore che salvava persino Pasqualina dissonorata, nel suo letto di dolore, e Vittoria, squartata dall’aborto e dall’egoismo maschile. Di Tonino ci resta dentro – come un dolore squisito – l’emozione di figlio e di padre, di artigiano che sa le cose con le mani e di poeta inconsapevole che sa le cose con il cuore. In fondo, ciascuno di noi può essere un “italianese” in bilico sulla vita, straniero in tutte le patrie: solo il possesso (e l’uso intensivo) di una cosa chiamata impropriamente anima può – pur senza eludere la sofferenza – salvarci. Ed è questo il vero prodigio d’una drammaturgia raffinatissima e sottile, e della trama fittissima di rimandi fisici, tic, mimiche impercettibili e cadenze verbali (stavolta non è il dialetto ardito ed espressivo del Pollino, ma una lingua “italianese” appena colorita) con cui La Ruina costruisce i suoi personaggi, dentro di noi, durevolmente. Le musiche originali dal vivo del bravo Roberto Cherillo, così come le luci orchestrate da Dario De Luca (altro pilastro di “Scena Verticale”), catalizzano le improvvise, geniali trasmutazioni di stato emotivo, le perfette suture narrative, lo spazio, intimo e universale, in cui si muove Tonino, l’italianese. Grande teatro di cui essere fieri, da meridionali, e da non perdere. A Messina oggi pomeriggio l’ultima replica.

Rumorscena.it – Roberto Rinaldi – 28/02/2012
[…] un attore dotato di un’abilità più unica che rara, quella di saper illustrare con la sola forza della parola, eventi, vissuti, storie e testimonianze, traslate dal senso dell’udito a quello della vista. […] La Ruina sceglie una di queste vittime, uno dei figli di un italiano e dando la voce al protagonista crea una sorta di amplificazione a cui si vanno ad aggiungere altre storie, si moltiplicano fino a diventare un racconto corale in grado di passare dal semplice io in tanti noi. Avanzano compatti e ti fanno venire i brividi per la potenza espressiva nel descrivere storie dolenti e toccanti. La bravura di questo attore è nella sua essenzialità drammaturgica e scenica, scevra da artifici inutili, c’è solo la narrazione a riempire il teatro, dove il confine tra palcoscenico e platea viene annullato dalle emozioni che circolano e arrivano direttamente al cuore degli spettatori, catturati dall’intensità emotiva che La Ruina sa esprimere. […] Il corpo fisico e mentale, ferito e insultato, il corpo di un Italianese in cerca di una identità che si svela nel suo dipanare una matassa di micro storie che si intersecano, si mescolano, sempre con il porsi in ascolto verso il pubblico, senza enfasi, senza retorica. Lo fa con una discrezione e umiltà che non può che commuovere e far pensare ad un’Italia migliore di quella che è.

Il Roma – Francesco Urbano – 11/11/2012
[…] Saverio La Ruina, con intensità devastante, ci rende poetica testimonianza. Con impareggiabile attitudine ne ricuce (espressione non solo metaforica perché il personaggio narrante di “Italianesi” è un sarto) i brandelli d’esistenza attraverso un percorso dove flashback e ritorno al presente agiscono sul racconto con cinematografica puntualità, addensandosi attorno alle parole in un alfabeto di privazioni e umiliazioni, speranze e delusioni, innamoramenti e separazioni di chi, suo malgrado, ha visto consumare la propria (r)esistenza nella speranza di ritrovarsi. […] La possibilità che Saverio La Ruina ha colto è stata proprio quella di mostrarci tutto ciò, con parole, gesti, segni, silenzi. La sua scrittura e la preziosa attitudine a “comunicarla” in forma recitativa hanno restituito, amplificandolo, ogni più intimo frammento di dignità a tutti quegli “italianesi”. E di questo gliene siamo profondamente grati.

La Repubblica Torino – Maura Sesia – 28/06/2012
[…] Italianesi, un bellissimo monologo, dipinto in una scena spoglia dalla gestualità delicata ed espressiva di un personaggio che narra il suo sradicamento di italiano nato in Albania, in un campo di concentramento, dopo l’ ultima guerra […]

Sipario – Maura Sesia – n.752-753 2012
[…] mentre è una gemma Italianesi di e con Saverio La Ruina, che ha suggellato il Festival delle Colline Torinesi. […]

La Repubblica Firenze – Roberto Incerti – 27/11/2013
I suoi spettacoli sono orazioni civili. Nel teatro di Saverio La Ruina convivono storia e poesia. […] La recitazione di La Ruina è un urlo disperato, una ferita aperta, un canto poetico.

Teatroteatro.it – Andrea Monti – 02/12/2011
Una storia dimenticata di internati in un campo di concentramento. Cade il muro di Berlino, si aprono le frontiere blindate dell’Albania e le vicende drammatiche di famiglie spezzate faticosamente si ricompongono. Nessuna eroica accoglienza, nessun ringraziamento o rammarico da parte della madre patria. Il teatro recupera sofferenze e speranze di anime abbandonate al loro doloroso destino. La storia drammatica, affrontata con delicatezza ed ingenuità, diventa comica, toccante, coinvolgente e viva. […] Saverio La Ruina mostra un timore ed un rispetto per il pubblico che ricordano l’atteggiamento scenico e la grande umanità di Troisi. Costruisce le storie partendo dai particolari più minimi. Finge di perdersi per la voglia di raccontarsi, rimanda le spiegazioni esplicitando le intenzioni, costella il testo di ritornelli autistici che ne esaltano la sensibilità. Scivola sulla denuncia delle ingiustizie subite investendo sulle emozioni piuttosto che sulle sue disgrazie. Si commuove e rende molto toccante l’incontro con il padre; il dito che due volte nega al genitore la possibilità di recuperare la mancanza di slancio iniziale è un gesto di una tenerezza assoluta. Candidamente si interroga sulle assurdità del destino che lo vede straniero in Italia e nemico in Albania, quando disilluso torna a visitare il campo che lo ha visto segregato per quaranta anni. Il suo è il racconto della nonna, la mia così parlava della guerra, ricco di immagini, emozioni, speranze, qualche rimpianto e nessun odio, nessuna voglia di rivalsa, di denuncia dei soprusi. L’approccio mite del narratore permette al pubblico di abbandonarsi alla sua vicenda. La sua compostezza incoraggia una identificazione con l’uomo che subisce, che resiste ricordando, che reagisce traghettando il prossimo nel suo inferno pieno di colori. Testo ed interpretazione si fondono dando vita ad uno spettacolo sincero, necessario, teatralmente seducente, umanamente toccante, artisticamente molto appagante.

Persinsala.it – Claudio Facchinelli – 11/02/2012
Italianesi, fra Euripide e Saint-Exupéry. Dopo Dissonorata e La Borto, Saverio La Ruina ci regala ancora un fascinoso, poetico monologo. Il linguaggio non è più il suo abituale lucano-calabrese, ma un italiano dialettale, che della terra d’origine mantiene solo qualche frammento, e la cadenza musicale. Abbandonando, almeno per il momento, il tema dell’emarginazione e la violenza sulla donna, Saverio indirizza la sua denuncia su un inquietante, vergognoso capitolo della storia recente, dimenticato, e sconosciuto ai più […] L’espediente drammaturgico, si parva licet componere magnis, è quello stesso di Euripide che, nelle Troiane, sceglie di raccontare gli orrori della guerra, non soltanto dal punto di vista dei vinti, ma addirittura delle loro donne, doppiamente umiliate e offese. […] il racconto si snoda in leggerezza, temperato da quell’ironia, ora ingenua e disarmante, ora maliziosa, cui il registro attorale di Saverio ci ha abituato, e si risolve spesso in poesia. Sollevandosi dal fango del campo, la narrazione affronta i temi dell’amore, dell’amicizia, con una levità e tenerezza di toni che, a tratti, fa pensare ai dialoghi fra il Piccolo Principe e la Volpe […] Il finale è ancora una dichiarazione d’amore filiale e di patria. C’era il pericolo dell’enfasi, della retorica, e invece la varietà dei temi, la misura, l’armonia della scrittura e del porgere di Saverio fa di Italianesi un delizioso, commosso omaggio all’identità italiana, nei centocinquanta anni dell’unità.

Dramma.it – Emanuela Ferrauto – gennaio 2012
Delicato, commovente, storico. Questo è Saverio La Ruina, o meglio il suo spettacolo Italianesi […] Nei giorni di celebrazione de “La giornata della memoria”, mentre le TV di tutto il mondo mandano in onda documentari storici, servizi e testimonianze sui lager tedeschi e sulle vite di numerosi ebrei, Saverio La Ruina ci ricorda vite mai conosciute o tralasciate. Ma si tratta comunque di storia. Non siamo qui per fare le veci degli storici o degli studiosi di storia contemporanea, ma per sottolineare l’importanza di un testo e di uno spettacolo che racconta un pezzo sconosciuto della storia italo-albanese. […] La poesia che La Ruina mette nelle sue parole rende il racconto di una dolcezza impalpabile, la timbrica e le sonorità della voce accarezzano le orecchie degli spettatori. L’intimità di una storia tanto personale è data dalla delicatezza, dall’entusiasmo di fanciullo che sembra non morire mai, incessantemente e caparbiamente speranzoso. Si sceglie di spezzettare il racconto tra passato e presente, in una serie continua di salti narrativi che sembrano farci saltare visivamente tra Italia e Albania. Il racconto scivola veloce e ricco di particolari, la scena è spoglia, non viene riempita da oggetti, tranne una sedia, e da piccoli movimenti fluidi. Questo permette di non distrarre lo spettatore che dipinge e costruisce nella sua mente, in maniera individuale, le immagini. […]

sipario.it – Giulia Morelli – 08/07/2013
Con questo monologo, valsogli l’Ubu come migliore attore del 2012, La Ruina porta in scena una tragedia ai più sconosciuta: quella di migliaia di civili e militari italiani rimasti intrappolati ed internati in campi di lavoro in Albania al termine della Seconda Guerra Mondiale, prigionieri di fatto fino al 1989. […] Sullo sfondo delle vicissitudine della prigionia permane sempre vivido il sogno del ritorno alla terra – spiritualmente – natale, l’Italia – patria di artisti, poeti e musicisti con le sue città stupende–, e l’agognato incontro col padre mai conosciuto. […] Con la pacata perizia d’un abile sarto, La Ruina tesse con sapienza la narrazione, in un equilibrio impeccabile tra pathos e riflessione, con il ricorso ad espedienti formali estremamente eleganti ed efficaci, e coglie con la sola delicata forza della propria voce e dei gesti, lievi e misurati, il nucleo di dolore e commozione che quest’odissea dimenticata, e per tanti versi fallimentare, custodisce; con grande dolcezza e raffinatezza interpretativa ne restituisce una testimonianza d’alto valore civile, con l’ausilio d’una sola sedia, su una scena vuota, e delle ottime musiche di Roberto Cherillo.

L’Adige – Massimo Bertoldi – 01/02/2013
Italianesi, La Ruina lascia il segno. Bolzano, splendido inizio per la rassegna “Altri Percorsi” Un monologo commovente e dolente, costruito con sapiente organizzazione drammaturgica, che rende lo sviluppo narrativo assai scorrevole, calibrato nei ritmi e nelle suggestioni verbali offerte da questa amara e significativa vicenda umana, che si cala in un capitolo di storia dimenticato, vero, terribile. La Ruina cattura l’attenzione del pubblico con l’indiscutibile bravura di chi sa raccontare le storie complicate in maniera semplice, con amara e poetica sensibilità. […] La narrazione scorre fluida, è modulata in tonalità famigliari, si presenta ricca di sfumature, sussurri, silenzi. Le parole mantengono l’andamento lineare della memoria e creano situazioni tragiche e inquietanti, anche comiche e ironiche. […] Sono i gesti leggeri e delicati, le espressioni del volto, gli sguardi, che oltre a qualificare le abilità artistiche dell’attore calabrese, offrono un prezioso supporto alla resa scenica della parola, un calabrese musicale. Il numeroso pubblico accorso nel Teatro Studio segue con attenzione e passione lo svolgimento di questa storia certamente “scomoda”, segno di smarrimento dell’identità o dell’identità negata, non solo a Tonino – La Ruina ma a tanti altri come lui che vivono con noi e magari in noi. Meritati e prolungati gli applausi finali. Il

Gazzettino di Treviso – Elena Filini -16/04/2012
La Ruina, ecco gli “Italianesi” in cerca di patria e identità. Vai a sapere se quella sedia di ferro storta ed erosa dalla ruggine, fosse proprio il luogo in cui gli internati dovevano espletare le strane “commissioni” notturne nei campi di concentramento albanesi. Vai a sapere se in quell’unica storia ci sia tutto un sipario di vite dimenticate, internate sino agli anni novanta a una manciata di chilometri dal confine. Il racconto lieve di Saverio La Ruina, sovrapposizione teatralmente perfetta di micro e macrovicende ci incammina idealmente dentro la storia di Tonino […] Quello di La Ruina è un teatro quasi ipnotico, fatto di oggetti dismessi e interamente costruito su un dire che, senza mai deflagrare, è protesta, collera, indignazione. Ed è proprio questo suo codice onirico, infantile, fatto di stupori e piccole magie a renderlo straordinario: La Ruina coglie le enormità della storia attraverso la lingua degli ultimi. “Italianesi” è una storia collettiva, che disvela uno spaccato storico di inaudita violenza con il passo di una canzone triste, assecondata da un corpo espressivo e ferito. Gli “Taliani” non sono tutti cantanti come diceva Leone, il padre di Tonino. Ma la lingua di La Ruina ne rende appieno quella musicalità dolente e poetica, popolare ed ostinata.

Il Quotidiano di Bari – Italo Interesse – 30/01/2013
Grandi consensi al Kismet per una produzione Scena Verticale che ha visto come protagonista Saverio La Ruina […] Avvolto nel nulla assoluto a parte una sedia, l’autore e interprete calabrese dà vita a un’esemplare performance […] Con un senso d’incompiuto, d’impotenza e d’inespresso si chiude una narrazione la cui pacatezza artiglia la platea. La Ruina è nei modi e nei toni il più classico uomo della strada. A vederlo sembra abbia da raccontare niente di che, salvo partecipare un vissuto comune con le stesse modalità caserecce con cui un anziano ci attaccherebbe bottone in una sala d’attesa o viaggiando in treno. E anche il Nostro attacca con quel suo dire confidenziale e alla buona in un italiano cadenzato di albanese, ancora si stenta a credere che stia per aprirsi una pagina di Storia rimossa. Poco a poco, però, la caratura del testo e dell’interpretazione emergono irresistibili. Allora fa specie questo contrasto stridente fra l’assenza di acredine verso chicchessia e tanto, inaudito dolore consumato a pochi chilometri da casa mentre un’Italia ignara passava dal dopoguerra al boom economico, dagli anni di piombo e quelli che hanno visto l’ascesa del Cavaliere. Grandi e meritatissimi applausi per La Ruina, […]

Made in Bolzano – Massimiliano Boschi – 02/02/2013
Molti attori sono abilissimi nel calarsi nei «personaggi», riescono a trasformarsi in Amleto, lo rendono vivo e reale, ma non sembrano capaci di calarsi nelle «persone» normali. Non mostrano lo stesso rispetto, non si immedesimano in loro ma nel pubblico, raccontano, non rappresentano e il valore della testimonianza finisce per «uccidere» il testimone. Saverio La Ruina invece non lo fa. Nel suo «Italianesi» crea l’internato Tonino Cantisani, summa di tutte le testimonianze di chi, nato in un campo di prigionia italiano in Albania, ci resta per quarant’anni, sognando la libertà e l’Italia. La Ruina rende Tonino vivo e reale, con le sue ingenuità, le sue debolezze, le sue semplici metafore. Sceglie il minuscolo, non racconta la Tortura, ma di quando lo menarono fino a renderlo zoppo, non descrive il Terrore, ma la paura di chi è prigioniero per cui la Libertà è soprattutto smettere di chiedere permesso per andare in bagno. La Ruina preferisce la strada dell’umiltà, fin troppo, tanto da appoggiarsi alle musiche per sottolineare i passaggi più forti dello spettacolo, pur non avendone assolutamente bisogno, visto che azzecca alla perfezione gestualità e toni, scegliendo un linguaggio che cattura gli spettatori di una rassegna teatrale «alternativa»; ma che risulterebbe efficace anche con gli appassionati della tv del pomeriggio. […]

Culturalife.it – Paola Abenavoli – 01/04/2012
[…] E quel sapere immaginare e poi rendere sul palcoscenico, con una poesia straordinaria, è la dote che connota l’arte di Saverio La Ruina, […] E, dopo “Dissonorata” e “La borto”, trasferendo ancora una volta emozioni molto intense, con la forza di parole, di toni, di gesti piccoli ma precisissimi, di una intensità interpretativa (oltre che di una genialità nella scrittura e nella costruzione del racconto), che fanno di Saverio La Ruina uno dei protagonisti assoluti della scena contemporanea, per la sua forza attoriale e per quella drammaturgica. […] Emozioni, storie e vita narrate attraverso le vicende dei singoli, come nella migliore tradizione letteraria e teatrale. Come sanno fare i grandi autori: e La Ruina rientra a pieno merito in questa categoria, trovando anche in questo caso la chiave giusta di narrazione, nonché di trasposizione scenica. Partendo dal particolare, dalla precisione che il protagonista mette nel suo lavoro, così legato ai suoi sogni e ai suoi colori, e arrivando a disegnare nell’immaginario degli spettatori luoghi, personaggi, sentimenti. C’è una sedia in scena, ma stavolta il racconto si stacca a tratti da quella sedia; un racconto in cui il personaggio, accanto ai mutamenti del volto, unisce piccoli ma intensi gesti, camminate stanche non solo per i pugni presi: il tutto […] all’interno di una interpretazione che sa trasferire emozioni con l’essenzialità che diventa forza. Quella di un grande attore, come Saverio La Ruina.

Culturalife.it – Paola Abenavoli – 20/04/2013
Saverio La Ruina e la forza della parola “detta” Torna a Reggio il miglior attore italiano (vincitore del premio Ubu 2012 nella categoria, ma chi lo ha visto recitare lo considera tale da sempre….e questo, comunque, è il secondo premio che conquista come migliore attore!!!): Saverio La Ruina affascina ancora una volta la platea, con la sua straordinaria interpretazione in “Italianesi”. […] Quello che gli ha fatto conquistare le platee italiane, e non solo; quello che gli ha fatto ricevere – anche in questa occasione – il plauso unanime della critica; e soprattutto quello che gli ha fatto ricevere i consensi di un pubblico che ogni volta scopre e riscopre la sua forza attoriale – e drammaturgica, naturalmente – , la sua capacità di coinvolgere attraverso un racconto che passa dalla parola e dalla fisicità, da quel calarsi nell’interpretazione, da quel suo costruire un percorso all’interno della storia (che è quella di un paese, di un momento storico, vista con gli occhi della storia di un singolo). E ancora una volta sorprende il pubblico, colpisce, emoziona. “Italianesi” è l’ulteriore conferma della grandezza di un attore che, attorno alla sua capacità artistica – e a quella di Dario De Luca, fondatore con lui della straordinaria esperienza di Scena Verticale e del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari – è riuscito a costruire una realtà culturale che parte dal sud per conquistare il mondo teatrale italiano. Ma quello che sorprende sempre è anche il rapporto con il pubblico che La Ruina riesce a creare, oltre lo spettacolo: incontrando gli spettatori, fermandosi a rispondere alle loro domande. Come quando, con la semplicità che lo contraddistingue, spiega come nasce la sua poetica, le sue opere. Quando afferma che la parola scritta deve funzionare, deve diventare gesto, deve fare muovere il corpo: perché la parola non deve essere letta, ma deve essere detta. La semplicità per spiegare la grandezza.

Arteatro.it – Michele Di Donato – 28/01/2012
Italianesi, di e con Saverio La Ruina, è un pezzo di bravura che è fascio di luce gettato con la pacatezza d’uno sguardo sul tema dell’identità dei popoli e degli individui che li compongono. In tempi in cui ancora ci si sofferma a chiedersi, un po’ pretestuosamente, chi possa dirsi a buon diritto italiano e chi no. […] A rispolverar da sotto ad una coltre d’oblio una di queste tragedie ha pensato Saverio La Ruina, portando in scena un testo scritto bene e interpretato meglio […] C’è nella sua voce una cadenza docile e tenera, che s’avvolge attorno ad un italiano incerto e venato di calabro, costantemente tinto da un perpetuo sorriso che è come un braccio teso tra il palco e la platea, come a ricercar un abbraccio confidenziale e sommesso. […] L’epilogo è melanconico. Mentre luci tricolori riverberano sul fondo, un uomo, un individuo, la sua identità, trascolorano tra due mondi, diversi solo nel modo di farlo sentire estraneo. Ed è attraverso la percezione del paradosso insito in queste inconcepibili estraneità che La Ruina ci consegna un personaggio straordinariamente umano, regalando un’interpretazione sì splendida da parer esser stata affrescata coi colori del sogno.

incertezzacreativa.wordpress.com – Laura Gemini – 04/02/2014
La memoria nei corpi. Appunti mediologici sugli Italianesi di Saverio La Ruina […] uno spettacolo che ha il pregio di sganciarsi dalla vera storia da cui origina, e da cui si documenta, per assumere pienamente una finalità teatrale che trova in sé la sua qualità riflessiva. […] La Ruina imbastisce un monologo incentrato sul racconto biografico del personaggio – una figura che assume le sembianze di un eroe-bambino, forte e garbato insieme – che procede per salti temporali. Un espediente drammaturgico basato su frammenti narrativi che passano dal presente dell’adulto, già all’inizio quando il sarto “ingaggia” il pubblico attraverso il commento alla piega dei pantaloni di uno spettatore, ai ricordi del passato, delle persone incontrate da bambino. […]Una parte di racconto viene tenuta in sospeso – “ma questo ve lo dico dopo” – per poi tornarci con la ripetizione, riprendendo le parole lasciate indietro, così da permettere allo spettatore di ritrovare immediatamente il filo, stare dentro alla ricorsività del discorso. Il punto mediologico centrale è dato perciò sì dal carattere feriale del linguaggio usato (cito Ennio Grassi), ma soprattutto da un testo che è “pre-scritturale”, centrato cioè sui principi dell’oralità e sulla parola incarnata. Tutto passa attraverso quel corpo in scena, nei suoi gesti, nella sua voce e nel simbolico che contiene e a cui rimanda a partire dall’esperienza individuale e dal ricordo che non possono mai essere detti fino in fondo, per lo meno non il senso soggettivo che resta indicibile. Un senso che il personaggio di Tonino ha elaborato dentro di sé, affidandosi all’immaginazione, all’elaborazione simbolica del trauma individuale e collettivo che lo riguarda e verso cui non prova nessun sentimento di vendetta. Allo stesso tempo però lo spettacolo lavora proprio sul passaggio dal piano individuale della comunicazione a quello relazionale, collettivo, della memoria condivisa all’interno di un dominio linguistico comune, basato sul linguaggio e il suo carattere orale. Forse è in questo che troviamo una traccia per il nostro presente, e la qualità riflessiva di un lavoro come questo, ovvero il bisogno di ritrovare una comunità, una forma che almeno ci assomigli e che produca una sua mitopoiesi, un ideale verso cui riconoscersi… anche se qui, nello spettacolo, sono ancora un padre e una patria irraggiungibili.

Linkiesta.it – Giulia Valsecchi – 04/12/2012
Pagine di storia che scorrono senza che l’indifferenza piombataci sopra sia arginata da una correzione corale. Tra i pochi a ricevere uno come tanti qual è Tonino Cantisani, un calabrese straniero in Italia e “taliano” traditore in Albania, il pubblico di Italianesi. Un monologo magistrale e di rara elevatezza attorale che trattiene già nel titolo quasi una seconda stirpe mista messa a nudo con rabbia e sgomento di privazioni, torture e rari spazi di immaginazione.

Liberal Mobydick – Enrica Rosso – 03/12/2011
Storie piccole piccole di Italiani d’Albania. Per Italianesi, in prima nazionale al Teatro India di Roma, Saverio La Ruina è diventato uomo. Gente che vive male in bilico su un piede solo, né carne né pesce ecco chi sono gli italianesi che entrano in scena. Sono storie private, raccontate da un uomo piccolo piccolo, che ancora sta elaborando un percorso: quello che doveva essere un sogno e che invece è diventato un incubo. […] La lingua scelta per la narrazione è un italiano posticcio che sposa le sonorità di un idioma personalizzato, frutto di una commistione di saperi che passa dal cuore prima che dal cervello. Il testo, che in prima stesura era già nella cinquina dei finalisti del Premio Riccione per il teatro 2011, muove e si muove con la consueta garbata, sorniona, insinuante delicatezza descrittiva e a poco a poco si popola di volti e fatti; piccole storie da mettere insieme per comporre il grande affresco di un tempo non troppo lontano. […] Saverio La Ruina, autore, attore e regista, ha una cura estrema per i dettagli psicologici e un amore viscerale per le sue creature: non le espone mai nude, ce le presenta nei dettagli, ma mai scoperte, aggredibili, così dichiaratamente fragili da imporre allo spettatore una gentilezza nell’ascolto. […]

Rubric.it – Elena Grandinetti – 09/01/2012
Italianesi di Saverio La Ruina al Teatro Valle occupato e poi la tournée continua […] Una storia struggente di stranieri a prescindere, ispirata a storie vere e finemente raccontata da chi ha avuto orecchi per ascoltare e mani per scavare nei vissuti di gente destinata ad essere italiana in Albania e albanese in Italia. Pochi gli elementi scenici ma il rigore della sceneggiatura e la bravura di La Ruina riescono a riempire bene il palco e i cuori degli spettatori. L’interpretazione dell’attore è finemente studiata: l’uso del corpo diviene metafora del vissuto (Tonino è zoppo ad una gamba), la cadenza nell’espressione denota un realismo che quasi disorienta. A fare da corredo le musiche di Roberto Cherillo eseguite dal vivo e le luci sapientemente pilotate da Dario De Luca. Uno spettacolo da non perdere per chi ama il teatro nella sua forma più autentica.

Teatroteatro.it – Roberto Canavesi – 28/06/2012
Ascoltare Saverio La Ruina si rivela sempre essere sempre un’esperienza di indubbio spessore emotivo, tanto forti sono le narrazioni di cui l’aedo calabrese si fa interprete: è stato così in passato per Dissonorata e La borto, e non è diverso per Italianesi, l’intenso monologo sulla tragedia di connazionali rimasti prigionieri in campi di concentramento in Albania, a seguito della dittatura instaurata dopo il secondo conflitto mondiale. […] il Tonino di Saverio La Ruina tratteggia con grande umanità il percorso di un’esistenza sofferta e travagliata, una vita che poco impiega a diventare simbolo di una condizione di perenne instabilità. […] Privilegiando la dimensione del racconto alla sperimentazione linguistica, cifra stilistica di altri precedenti allestimenti, Saverio La Ruina definisce con poesia personaggi ed ambienti, mescolando toni popolari ad altri più aulici, in perenne bilico tra quelle dimensioni di sogno e realtà che si risolvono in un italiano vernacolare dagli accenti vagamente esotici: un’accorata narrazione le cui pause son scandite dalle belle musiche di Roberto Cherillo […] Italianesi, finalista all’edizione 2011 del Premio Riccione per il Teatro, suggestiva pagine di un teatro di parola, cui, se da un alto, gioverebbe una maggior brevità nella parabola finale, dall’altro si afferma come testo non solo ben scritto e teatralmente efficace, ma soprattutto necessario in quel percorso di recupero della memoria in cui oggi, più che mai, le nostre coscienze si devono collettivamente impegnare.

Recensito.net – Matteo Brighenti – dicembre 2013
[…] Sul palco c’è solo un attore, avanti e indietro nel tempo come un fuso nel telaio della Storia, eppure si avverte la presenza di tutte le donne e gli uomini perduti nei campi di concentramento albanesi. Li vedi, non c’è nient’altro che un corpo in scena, ma riesci a vederli tutti. Distintamente. Questo è teatro allo stato puro. E Saverio La Ruina un talento di intensa umanità che sa raccontare in prima persona la vita degli altri. Come fosse la sua.

genova.mentelocale.it – Laura Santini – 18/12/2013
[…] migliori esempi di teatro di narrazione contemporaneo, dal Vajont a Ustica di Marco Paolini, da Olivetti a Mattei di Laura Curino, fino alla preziosa drammaturgia di Saverio La Ruina dove donne e uomini ignoti della nostra Italia vanno in scena nelle loro lingue e storie, tutt’altro che eroiche (Dissonorata, La Borto, Italianesi).

Pensieridicartapesta.it – Paola Monaco – 13/12/2011
[…] Ogni battuta pronunciata da Saverio La Ruina è una raffinata lirica d’amore, di una delicatezza commovente, in cui le parole, benché pronunciate in un dialetto sgrammaticato, sembrano cucite tra loro da un abile artigiano. Il protagonista lascia parlare il fanciullino che ha dentro di sé, che guarda il mondo con infantile meraviglia e rimane a bocca aperta di fronte alla stupida logica della malvagità. Dietro al suo ingenuo modo di essere, che potrebbe sembrare un limite, c’è un’illimitata, e ormai rara, capacità di inseguire un ideale con la fedeltà di un amante serio e appassionato, innamorato dell’Italia così come della vita. Una fedeltà che non è più di questo mondo. Sentire raccontare le sue storie sarebbe musica soave, se non fossero così amare. Anzi, agrodolci. Perché le umiliazioni, le torture, le botte che anestetizzano il corpo, i sotterfugi meschini degli ufficiali, la rivalità tra etnie, l’allontanamento forzato dai propri cari, sono situazioni narrate con un’innocenza che disarma, intervallate da memorie di serafico candore. E noi viviamo, soffriamo, ci commuoviamo assieme a lui. Speranza e sogno sono i pastelli che colorano questo universo grigio e verde, dello stesso colore della merda. E così i suoi pensieri diventano quadri di Mirò. […] Se questo è un uomo, ci chiediamo, un’altra volta, assieme a Primo Levi, di fronte all’ennesima tragedia della storia, rappresentata da una sedia di metallo trascinata faticosamente per tutta la scena, a causa di una gamba claudicante. Un dramma silenzioso, per la verità, in cui i protagonisti recitano il copione di un film muto: talvolta ironico e leggero, ma pur sempre silenzioso e demodé. Non si ha voce per parlare. Il regista non accorda questo diritto agli attori. E muti se ne vanno, come anime inquiete, a girovagare nel limbo della loro identità, dove non parla, non suona e non canta nessuno. Cinque giorni in Questura e zitti! Pensiamo alla dolcezza di quel dialogo e sorridiamo malinconicamente: «Papà, dove andiamo?» «Eh, andiamo nel posto più bello del mondo: l’Italia. Non c’è cosa più bella che essere Taliani»

Il Gazzettino – Alessia Pilotto – 11/12/2012
Italia, il sogno che diventa incubo “Ma guarda st’albanesi” dicevano le guardie. “Non c’è cosa più bella che essere italiani” diceva Papà. Due frasi che racchiudono simbolicamente una vita; una vita che racchiude simbolicamente altre vite […] È “Italianesi”, lo spettacolo di e con Saverio La Ruina andato in scena al Palamostre per il cartellone Akropolis del Teatro Club di Udine: un’ora e mezza di monologo toccante […]

Paesesera.it – Valeria Merola – 29/11/2011
La Ruina mette in scena “Italianesi”. Il dramma degli italiani in Albania Una storia dimenticata, sepolta sotto le macerie della seconda guerra mondiale e sfuggita alla memoria collettiva. Eppure una storia ancora molto attuale, che scopriamo più vicina di quanto non avremmo potuto immaginare. […] Con un filo di voce, amplificata dal microfono che consente di apprezzare le minime inflessioni e le sfumature dell’accento calabrese, l’attore e autore si cala nei panni di Tonino […] Non mancano gli spunti comici ed ironici in un monologo per il resto molto teso, da cui emerge il dramma di questi figli, perseguitati perché italiani in Albania ed emarginati come albanesi, una volta arrivati in Italia. Pur raccontando una vicenda tragica, l’interpretazione di Saverio La Ruina ha l’immediatezza dell’oralità, di cui riprende l’andamento circolare della memoria. Al centro di una scena vuota, l’attore si pone come una presenza dalla fisicità rigida, che contrasta volutamente con la fluidità e con la plasticità delle parole, introdotte dal ritornello «comincio a ricordare». E il flusso dei ricordi si articola in quadri dai colori luminosi, gli stessi che Tonino immaginava chiudendo gli occhi, per staccarsi, almeno per un attimo dallo squallore di quel «grigio e verde, i colori della merda», che vedeva ovunque nel campo di concentramento. […]

Quartaparete.it – Rosario Esposito La Rossa – 28/01/2012
“Italianesi”, storie troppo spesso taciute Non si può non notare. Non si può fare finta di nulla. Arriva a Napoli un vincitore del Premio Ubu, arriva a Napoli uno degli artisti più interessanti, innovativi, eclettici del panorama teatrale. […] Ottimo narratore, in grado con pochi ed efficaci gesti ripetuti incessantemente di incollare lo sguardo degli gli spettatori su di sè, anche in questo suo nuovo spettacolo sceglie, come forma vincente di racconto, il monologo […] Questa produzione di Scena Verticale, per l’intensità che la contraddistingue, è semplicemente da vedere. Da vedere per la potenza storica, civile, perché scava in quelli che Montale definiva “i buchi della storia”, le trappole non raccontate dai vincitori, le tragedie di uno stato che preferisce dimenticare e mentire piuttosto che ammettere i propri errori. Di storie così ce ne sono tante, ma di attori capaci di raccontarle pochi. Ed Italianesi, come i precedenti, è un testo che verrà ricordato a lungo, fitto e preciso, “colorato” e vivo, in un italianocalabrese alla portata di tutti.

Da Facebook – Marcello De Gregorio, Laboratorio Poiein – Teatri D’Utopia
Italianesi, di Saverio La Ruina. La rivoluzione nel teatro civile di narrazione. La bravura di Saverio La Ruina in questi ultimi anni è stata ampiamente riconosciuta con premi importanti ed ampio successo di pubblico e critica. L’ultimo suo lavoro, semplicemente straordinario, reca come titolo una crasi: “Italianesi” (italiani-albanesi). Ne vogliamo qui dare un giudizio senza addentrarci in esplicazioni della trama, dicendo per essa solo che si tratta della narrazione di un dramma, di un ritorno, di un rifiuto e di un’illusione: sentimenti vissuti dagli albanesi di origine italiana nati nei campi di prigionia del regime di Hoxha in cui, sino al crollo dello stato “socialista”, si pertetrò il loro internamento ed ancor prima quello dei loro genitori (in qualche modo, considerati tutti fascisti e “spie controrivoluzionarie”) in risposta alla guerra d’invasione da parte del criminale imperialismo mussoliniano. Riteniamo che questa seppure breve presentazione del “cosa” basti di per sé a mostrarne la straordinaria importanza sul piano etico e l’altissimo grado di valore civile e formativo, e dunque vogliamo qui concentrarci essenzialmente sul “come” e sul “perchè”. Ossia, sul metodo di La Ruina, sul suo modo di fare teatro e su quali possano essere le motivazioni forti che ci possono spingere ad accorrere ai suoi appuntamenti. Negli ultimi anni, fortunatamente, lo scenario teatrale italiano si è arricchito di importanti esperienze ascrivibili, come ipotesi classificatoria, a quel campo denominato “teatro civile di narrazione”. Due nomi su tutti: Marco Paolini ed Ascanio Celestini. Indubitata è la loro bravura e la pregnanza delle loro opere. E’ possibile inserire in questo campo – mutatis mutandis – anche il lavoro di Saverio La Ruina. Tuttavia, va fatta una importante precisazione che può facilitarci a vederne importanti differenze, in un certo senso rivoluzionarie, che fanno da ponte tra il mero teatro di narrazione e la prova attoriale di alto livello. La Ruina non porta mai in scena pura “fiction”. Non inventa, non produce dal nulla testo ed idea rappresentativa. Non costruisce storie che richiedono cast numerosi, fantasmagorie scenografiche, regie eclettiche, sperimentali ed ipermoderne. La scena è sua, sul palco è da solo. Gli basta un fazzoletto messo sul capo per diventare donna e raccontarci una storia lacerante fatta di sud, amore, solitudine e aborto. Gli basta un maglioncino da grande magazzino e una offesa alla gamba destra per diventare albanese-italiano, internato e maltrattato. E il quadro percettivo che funge da sfondo è solo un delicato, essenziale ma vieppiù sapiente gioco di luci bianche, capace di passare dal disegno del dramma a quello della felicità che sta per scoppiare in petto. Il tutto, contrappuntato da esili inserti pianistici, brevi, radi ed intensi. E’ anche questa una forma di “teatro minimo”, di un teatro essenziale, grotowskianamente “povero”. Ma… che ricchezza nelle cose che ci regala! Quanta emozione, quanta densità di senso, sentimento, ragione e racconto. Non sarebbe possibile senza una bravura indiscussa di chi sta sul palco. La rivoluzione del teatro di narrazione di Saverio La Ruina sta in questo: egli non è un mero narratore. Egli, narrando storie, si differenzia dai citati bravi colleghi e diventa personaggio. Assume i tratti di colui di cui racconta. Si fa attore mentre innanzitutto vuole essere narratore, raccontatore. E tuttavia, pur essendo un grande e misurato raccontatore, emerge la sua gigantesca bravura d’attore, perlomeno quando è alla prova appunto con quel teatro che chiamiamo “di narrazione”. Non chiediamo a Saverio capriole da saltimbanco, fisicità lecoqiana o classici come prova d’esame. La bravura è tutta di fronte a noi. Il suo stare in scena, così sussurrato nel dire e mimetico anche nel gioco degli accenti dialettali, diventa un campo pieno, dove la semantica teatrale si condensa e assurge a totalità espressiva al servizio del testo, di una storia vera, sempre vera, radicalmente vera, drammaticamente vera. Mai il narrare diventa esercizio di narcisismo. Mai l’ego prevale sul nos. Mai la dottrina diventa scopo. Non c’è moralismo, ma tensione etica da teatro di parola di primissima classe. Nel quale si assiste a storie sempre dal sapore antico, nascosto, intrise nelle generazioni che fanno da zoccolo esistenziale alla nostra stessa generazione. Non si assiste ad autocompiacimento teatrale, ma ad una vecchia sapienza d’oralità, che incrocia il suo sentire con una formidabile capacità intepretativa intesa esclusivamente come medium per raccontare di altri, di altro da sé. Sembra facile, sembra cosa minima. Eppure, questa impresa resta davvero la cosa più difficile del teatro, di quel teatro che non chiede protesi, che non offre sostitutivi ma che fonda la sua essenza trasmissiva e coinvolgente (brechtianamente coinvolgente) nella voce, nelle parole e nel togliere cose per mettere stati d’animo immanenti ai fatti vissuti. Il teatro di La Ruina è contenuto che usa una forma semplice messa a suo frutto. Egli stesso offre attorialità stupefacente al servizio del racconto. Di una verità incastonata nelle storie. E ci trasporta, letteralmente incollati alle sue labbra, rapiti dalla sua voce, attanagliati dagli eventi e dai sapienti giochi e salti temporali che solo un grande narratore orale è in grado di fare, in un mondo di sentimenti e di esperienze che diventano materia, lezione, sapienza acquisita per lo spettatore. Uno scopo etico come conseguenza di un grande impegno teatrale e narrativo. Con una scrittura che sempre fa da calco agli atti umili e popolari di parola e di ricordo. Tutto questo ha tra i suoi effetti anche la commozione di chi ascolta e sente, vibra, patisce con l’attore ma ancor prima col personaggio/persona reale che l’attore incarna. Ed oggi, in questi tempi grami e avari di socialità e di umanità, anche la commozione, a teatro, è una pratica rivoluzionaria. E’ un consiglio vivissimo, il nostro: quello di non perdersi Italianesi. Ed è anche un grande ringraziamento: all’Associazione Culturale Scarti, a Casarsa Teatro e a Balletto Civile come direzioni artistiche, al Comune di La Spezia e tutti agli altri soggetti che hanno permesso la realizzazione, per il secondo anno consecutivo, di quella bella rassegna teatrale denominata “Fuori Luogo. Percorsi teatrali nel Presente”, che ha portato in una città che spesso sonnecchia sul piano culturale nomi ed opere di altissimo livello e che è ancora in atto, presso il Centro culturale giovanile “Dialma Ruggiero”.

Stratagemmi.it – Corrado Rovida – 06/02/2012
Italianesi […] La Ruina è un narratore eccezionale: la sua capacità mimetica offre allo spettatore la testimonianza partecipata di un personaggio autentico, sfaccettato, i cui tic linguistici, le peculiarità fisionomiche ed espressive, hanno basi così concrete che sembra di trovarsi di fronte a un vecchio parente che ricorda la propria esperienza senza alcun bisogno di esagerare. Come un vecchio parente La Ruina racconta con espressività, ma senza affettazione: la gestualità si limita alla parte superiore del corpo, alla mimica facciale, alle mani irrequiete; il resto, a partire dalla zoppia, dovuta alle torture nel campo, fino alla scenografia costituita da un’unica sedia, non sono altro che funzioni del personaggio. […]

Umbria24.it – Lucia Caruso – 15/02/2012
[…] Tonino, che nel campo aveva imparato a fare il sarto, affascinato dai colori delle stoffe, guarda il mondo con quegli occhi e lo riporta a noi come un susseguirsi di tele variopinte, dalle tonalità vivaci e stravaganti, quelle che vedeva quando provava a dimenticare il grigio del campo. […] Pare di vederlo seduto al tramonto, mentre aspetta che passi l’aeroplano. E fa una tenerezza che stringe il cuore quando narra di questa visione di un’Italia «bellissima», «con le città più belle del mondo», «piena di pittori, di musicisti e cantanti», come gli diceva sempre il padre. […]La gestualità di questo personaggio è intensa, fatta e fitta di sguardi che inducono a una sofferenza partecipata, che narrano del dolore, ma anche di tenere e ingenue illusioni, di sogni. E’ una gestualità in cui il movimento delle mani non solo materializza concetti, ma disegna particolari.[…] Le musiche di Roberto Cherillo, suonate dal vivo, come un soffio caldo, come a venir fuori da uno sfondo nebbioso e fumoso, accompagnano per mano l’azione. E’ un pentagramma di note delicate in sintonia con la delicatezza del racconto e dei sentimenti.[…] L’interpretazione di Saverio La Ruina è magistrale. Da corpo e anima al suo personaggio. La sua parola possiede una straordinaria forza evocatrice, capace di catapultare il pubblico in luoghi e tempi lontani, attraverso colori, suoni, gesti, descrizioni minuziose di paesaggi, personaggi e situazioni, dettagli che permettono di entrare subito nella storia e di viverle in simbiosi col protagonista. E’ possibile quindi condividere con lui lo stupore, l’ingenuità, il dolore, la rabbia, la forza, l’amore. Perché è una storia fatta di stupore, di dolore, di rabbia, di forza e d’amore, quella che La Ruina sceglie di raccontare.

Persinsala.it – Chiara Patitucci – 04/03/2013
Saverio La Ruina, vincitore del prestigioso Premio Ubu 2012 come Miglior attore, porta a Pescara il suo Italianesi La Ruina, autore e attore del lungo monologo, tratta con una delicatezza indicibile un tema ostico: la libertà negata, e le sue conseguenze sulla costruzione dell’identità personale di chi è rimasto prigioniero.[…] Il linguaggio del testo è decisamente poetico nella sua semplicità e immediatezza[…] Una poesia del quotidiano profonda e romantica, che con la sua lampante semplicità (il protagonista non si pone mai domande esistenziali: lascia che ce le poniamo noi) si staglia contro l’abbrutimento dei campi di concentramento, […] Le parole urlano la realtà più della realtà stessa: Saverio La Ruina trasmette al pubblico tutta la drammaticità dell’oltraggio subito, delle torture, della libertà negata per oltre 40 anni senza minimamente accennare a elementi di critica politica, a sentimenti d’odio, rancore o vendetta. Lo fa con la delicatezza e il pudore delle storie semplici, con aneddoti ironici e metafore infantili e, proprio per questo, efficaci, […] Il riso però si fa amaro, commosso, pietoso verso quest’uomo semplice e dimesso, rassegnatamente triste, che ancora si interroga, con un’ingenuità disarmante, su come sia possibile che certe cose avvengano. Italianesi è uno spettacolo importante, profondo, niente affatto retorico né demagogico, che ci ricorda un pezzo della storia passata e, forse, riesce a far luce anche su tanti aspetti di quella presente: ci dice come gli altri (in questo caso gli albanesi) percepiscono noi italiani, e ci insegna come noi dovremmo imparare a percepire tutti i migranti che sbarcano sulle nostre coste, mentre fuggono da situazioni di violenza, abusi, negazione dei propri diritti politici ed esistenziali. Albanesi possiamo esserlo anche noi.

Persinsala.it – Luciano Ugge – 02/07/2015
[…] Uno spettacolo che racconta un ieri tristemente simile all’oggi. Compostezza e pathos, dignità e leggerezza, poesia e dramma: nei testi e nelle interpretazioni di Saverio La Ruina – attore, drammaturgo e regista – c’è tutto.  Uno scorrere di parole da cantore di storie, quell’affabulazione propria di noi del sud, una montagna russa di picchi che potrebbero assurgere a tragicità del quotidiano se non fossero temperati da cascate di ironia […] Testo e interpretazioni intelligenti, con brevi interventi musicali – filmici nel loro accompagnamento senza forzature – e un uso delle luci puntuale e preciso al servizio delle emozioni e delle espressioni di Tonino, solo in scena eppure circondato da un piccolo universo di persone, che La Ruina riesce a caratterizzare con un semplice gesto (bella l’immagine della madre che si stringe il capo con mani tremanti), un cambiamento di tono, una forma dialettale, una leggera increspatura della voce. Ieri come oggi scrivevamo, scrivevamo nel sommario. Sì, perché per un Muro abbattuto, in questi 26 anni, se ne sono costruiti cento. […]

Adamomagazine.wordpress.it – Caterina Morgantini – 09/03/2013
[…] Saverio La Ruina, autore colto, raffinato, vincitore nel 2012 del Premio Ubu, uno dei principali riconoscimenti teatrali: ma La Ruina non è animale da teleschermo e il suo talento, non decretato da nessun indice d’ascolto, rimane tesoro prezioso custodito dietro quinte di velluto. La Ruina ha avuto la sfortuna/fortuna di dover lavorare in un paese dove il rumore impera nella sfera privata come in quella pubblica: dove le grida di uccellacci e uccellini alzano la posta per conquistare l’isola della prepotenza. Contro un simile guazzabuglio di ragioni vere e presunte, spiccando ancor di più sullo sfondo caotico, l’attore oppone la pacatezza di un monologo commovente, veritiero, trasformando la Storia in pulsante materia narrativa […] Allo stesso tempo Italianesi è memoria collettiva, foto mancante nell’album del nostro passato che Saverio ha scattato mettendo insieme, davanti all’obiettivo di un’esatta conoscenza antropologica, testimonianze, racconti, ricordi. […] I fatti, le emozioni, i rimpianti, Saverio La Ruina li cattura per donarli agli spettatori con gesti pacati, attenti, misurati sul peso di ogni singola parola, di ogni più pesante ricordo: con la pura presenza fisica, e una bravura che ricorda la capacità di mimesi dell’immortale Volontè, fa obliare tempo e luogo, portando ad ascoltare senza giudicare. È la forza del racconto che si fa riflessione vibrante senza bisogno di orpelli linguistici e scenografici, senza vesti strappate: la nuda tensione del verbo, il forte coinvolgimento per un carico emotivo portato di nuovo in superficie, mentre sullo sfondo si agitano i brandelli delle dittature che hanno diviso e seminato zizzania. Italianesi, con ritmo poetico, lento, rianima la nostra assopita consapevolezza, e tappa le orecchie all’animo per non farlo distrarre oltre modo: che ad arrivare sia solo la disillusa speranza di Tonino, ‘taliano che voleva diventare italiano.

www.paperstreet.it – Manuela Margagliotta – 29/06/2015
[…] Italianesi di Saverio La Ruina ci mostra che la memoria – la storia di un uomo, di un popolo – deve essere esercitata […] Occorrono tempo e dovizia, anche per i nomi – che pur arriveranno – o per gli episodi della propria vita: perché non siamo in una cronaca deviata in fiction, qui niente è definibile in un format netto e rassicurante; questa è la sua vita, ed è incerta, proprio come l’andatura zoppicante, indelebile “ricordo” delle guardie del campo e della spietatezza della realtà. […] Una scrittura puntuale e calibrata, un dialetto calabro che sacrifica la comunicabilità in virtù dell’espressività di una vita e un disegno luci (Dario De Luca) che sagoma le ombre evidenziando il peso della storia: Italianesi ci mostra la stessa scena, ci fa sentire le stesse voci di una storia scomoda di cui “noi” siamo fatti.

Strill.it – Josephnie Condemi – 20/04/2013
[…] Il corpo dell’attore si plasma con quello del personaggio perché “la parola teatrale deve avere un’azione, è scritta per essere detta” ma in La Ruina diventa tensione continua tra parola e carne, gesto e pensiero, che si fondono insieme ma mai del tutto, cosicché attore e autore si scambiano le parti in un monologo che diventa polifonia di voci dimenticate e magicamente riaffiorate nel cambio di tono, nella direzione di uno sguardo che fa passare da una sequenza narrativa all’altra senza traumi, in un silenzio denso che fa trattenere il fiato. Perché è uno ma sono tanti. “I frutti puri impazziscono”, avrebbe detto qualcuno. Pendolarismo identitario, avrebbe aggiunto qualche altro. La Ruina fa sì che il teatro debba essere vissuto (da attori o spettatori) prima che scritto.

Le Grandi Dionisie – Mauro Sole – 03/12/2011
Il mito del ritorno nel proprio paese d’origine, l’Italia, e la fuga dalla tragedia dittatoriale di un paese quale l’Albania, è il tema di questa commovente storia firmata Saverio La Ruina. Drammaturgo e attore tra i più interessanti della scena contemporanea, La Ruina, da solo, nella sala con una sedia di ferro dalla quale si alza e si siede con disinvoltura, si presta alla leggerezza interpretativa di Tonino, il protagonista del racconto […] La tenerezza del ricordi d’infanzia, l’immagine di un paese fatto di pittori, musicisti e cantanti quale l’Italia raccontata dal padre di Tonino vibrano senza inceppi nella voce amplificata dal microfono e nel corpo di La Ruina, che rende a sua volta una costante fluidità e una profonda percezione della storia nello spettatore rimasto incollato, grazie anche all’interrotto intercalare calabrese dell’attore che suscita anche la risata ad ogni specifica sfumatura, anche sulla soglia dell’episodio tragicomico. Una partitura studiata a fondo, ma della quale non trapela minimamente la fatica per il senso di ritmicità che lo spettacolo stesso costituisce. Ogni momento può diventare un grande immaginario che ci lega al protagonista. […] Senza alcuna piega sentimentalista, uno spettacolo toccante, tratto da una storia vera, cui come ultimo merito, vanno riconosciute le bellissime musiche eseguite dal vivo di Roberto Cherillo.

Punto e linea magazine – Claudio Elli – 03/02/2012
[…] La narrazione, ispirata a fatti realmente accaduti, riesce a tratti persino a divertire, pur nella cornice tragica di un dramma storico troppo facilmente dimenticato se non addirittura mai menzionato. Un testo interpretato sempre con garbo, nel sussurro di una poesia che riesce però a fendere l’anima di chi l’ascolta con la forza di un machete e la precisione di una stilettata al cuore. E il distillato amaro di una scomoda verità, si trasforma a questo punto in elisir di speranza per un’Italia del divenire.

Nuovosoldo.net – Francesco Saija – 01/04/2012
La Ruina, autore impegnato e grande attore, ricostruisce sul palcoscenico, con intenso rigore drammaturgico e al contempo con leggerezza, una pagina drammatica di quella che definisce “una tragedia inaudita, rimossa dai libri di storia, consumata fino a qualche giorno fa a pochi chilometri dalle nostre case”. […] Già lo scorso anno abbiamo potuto apprezzare La Ruina con il monologo “La Borto” e in questa recente prova, apprezzatissima al Premio Riccione del 2011, si conferma come uno dei più interessanti e bravi attori del nostro teatro contemporaneo. Sul palco, con La Ruina, la discreta e significativa presenza musicale di Roberto Cherillo. Una grande storia di vita, rivissuta nel teatro, dal grande affabulatore La Ruina che riesce, quasi portandolo per mano, a coinvolgere lo spettatore con la splendida sua parlata calabrese […] Nell’era delle grandi migrazioni che poi ci sono sempre state sin dalle origini dell’umanità, La Ruina, con il suo dolce e drammatico linguaggio, con l’impegno fisico del corpo e la plasticità dei gesti ci porta verso un teatro semplice, vero e diciamo pure d’avanguardia. […]

ilcittadinodimessina.it – Vincenza Di Vita – 20/03/2012
Il pacato e dolce accento di un cantastorie-sarto conduce il pubblico nei sogni a colori di stoffe brillanti di un uomo che è stato “vent’anni straniero in Italia”, provando a cancellare il grigio e verde “che è il colore del campo, il colore della merda”. Il rabbrividire narrato dal protagonista prende vita attraverso la cadenza commossa e il vibrato sonoro dell’attore. […]L’intreccio scomposto dei ricordi diviene infine unica trama, come i pezzi di stoffa scartati che unirà, dimostrando di meritare il privilegio di meritare l’investitura che un giorno lo rese il primo sarto del campo, cucendo con essi una camicia. […] Il momento più toccante e fortemente lirico viene raggiunto attraverso la carezza di una mano donata, che oltre ogni sterile intento didascalico, viene staccata dall’altra da cui era contenuta e lasciata cadere oltre la strana sedia sulla scena spoglia.

Teatro.org – Alessandro Grieco – 30/11/2011
[…] “Italianesi”, già finalista all’edizione 2011 del Premio Riccione per il Teatro, racconta le periodiche e violente persecuzioni dei soldati e dei civili italiani intrappolati in Albania con l’avvento del regime dittatoriale […] Come il protagonista della coinvolgente messinscena, con l’accusa di attività sovversiva ai danni del regime, la maggior parte degli “italiani” fu condannata a quarant’anni di dura prigionia […] La Ruina, in un singolare impasto vernacolare che non rinuncia mai alla vocazione affabulatoria, insegna, con un’eleganza formale capace di piegarsi all’invettiva come alla chiacchiera da bar, a non impigrirsi di fronte alla superficialità delle grammatiche contemporanee ed infatti anche le vicende più dure, accompagnate dalle musiche di Roberto Cherillo, parlano la lingua della poesia e sono tessere di un originale mosaico lirico-lessicale che recuperando in maniera evidente la narrativa di Carmine Abate, ci ricorda che la libertà è come l’aria, quando non c’è, ti manca.

Lospettatoreblog – Nicola Zuccherini – 27/10/2012
A me è piaciuta moltissimo la comunicativa selvatica che Saverio La Ruina ha saputo dare al suo personaggio, l‘adesione empatica – prima di tutto linguistica – alla sua moralità popolare, rude e dimessa. Perché ha dato un risalto incredibile all’epos familiare di un povero di genio, un sarto italiano nato nei campi di prigionia albanesi – dove furono rinchiusi gli italiani rimasti in Albania dopo la fine della guerra, per uscirne solo alla caduta del regime. E ritrovarsi stranieri due volte: Italianesi, come recita il titolo. La scelta della mimesi integrale è però anche il problema: quando è il momento di prendere le distanze, di dare oggettività alla materia narrativa per risolverne gli snodi, La Ruina non trova lo strumento recitativo, la scelta di regia: ti sembra ancora una storia molto bella, sì, ma è come se qualcuno te la dicesse al telefono, o la leggessi su una quarta di copertina. Sono per fortuna momenti minoritari nello spettacolo, ma ci sono. I temi della lontananza, della prigionia, del ritorno sono invece giocati con grande bravura secondo questo pensiero: la privazione della libertà e l’isolamento si traducono in un’infanzia infinita. Pensiero che intesse tutto lo spettacolo e nel finale dà il ritmo a un vorticoso ritorno delle battute chiave, fino a questa: “Papà, dove stiamo andando?”. Così si stringono i fili di una vicenda familiare che, pur immersa nella Storia con la S maiuscola, resta appiccicosa e privata, fatta di silenzi, pentimenti, difficoltà a capirsi. E qui Italianesi commuove il pubblico, e lo imbarazza, e si fa credere.

www.lineefuture.it – Luigi Scardigli – 30/05/2015
[…] È una fiaba inarrestabile, Italianesi, che inizia da c’era una volta, ma non finisce più, resta sospesa. […] La storia, tenera e commovente come tante novelle che aiutano i nonni a non dimenticare e i nipoti ad addormentarsi, si immerge però in una fiaba ancora più antica, confidenziale, irrisolta. Perché Italianesi sono una serie di elementi che si sovrappongono, intersecandosi e rimandando, ad altro momento, i loro parziali epiloghi, dipinti, con paziente pedagogia, dal maestro La Ruina, che non si dispera mai, che aggira ogni ostacolo, che sa come non intristire oltre il dovuto la propria scolaresca, che è poi gente che in quella storia, qualche punto di similitudine, se non di contatto, lo può sempre trovare. […] questa fiaba imprevista e non immaginabile tanto profonda, non può fare a meno del suo ideatore, del suo costruttore, del suo cantore, Saverio La Ruina, venditore ambulante di magie, tenero tessitore di punti a croce, meraviglioso e colto autodidatta che lambisce, impercettibilmente, i dialetti mediterranei che lo contraddistinguono per offrirsi, in tutta la sua violenza, alle emozioni del pubblico, che resta interdetto, ammutolito, pietrificato […] Agli spettatori invece, il compito, sin troppo facile, di non dimenticare nulla. Soprattutto di aver conosciuto Saverio La Ruina. Di averlo incontrato.

www.concretamentesassuolo.it – Stefano Serri – 10/03/02016
[…] Farci riflettere sull’uso civile di voce, occhi e teatro è uno dei meriti di “Italianesi”, il pluripremiato spettacolo di e con Saverio La Ruina  […] Per cosa ci sono stati dati gli occhi, ce lo mostra Saverio La Ruina, un interprete-scena capace, guardandoci uno a uno, di offrirci uno sguardo migliore, uno sguardo che ci permetta di guardarci tra noi […]

Teatro.org – Francesca Feliziani (V liceo scientifico) – 03/03/2013
[…] commuove il modo in cui viene raccontata. Questa è la forza che La Ruina è stato in grado di innescare: nelle sue parole c’è una voce che ne amplifica tante altre, sopite dal tempo e dalla dimenticanza.

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