Il sole 24 ore – Renato Palazzi
by on December 21, 2015 in ITALIANESI PRESS

 

Grande, grandissimo Saverio La Ruina, un condensato di bravura e di alto senso poetico, capace di condurre passo passo lo spettatore – per accenni, per piccoli gesti – dentro l’anima di un personaggio, come forse solo Eduardo e pochi altri hanno saputo fare. Smessi i panni delle donne calabresi angariate protagoniste di Dissonorata e de La Borto, l’attore affronta qui un altro dramma lancinante, quello dei figli di militari italiani nati in Albania, dopo la guerra, e cresciuti nei campi di prigionia, fra due patrie, senza vera identità nazionale. In questo suo nuovo testo Saverio, golfetto un po’ vintage, spalle appena incurvate in una rassegnazione senza età, lievemente claudicante nello spostare la sedia che è il suo unico attrezzo scenico – è un sarto che ha passato gran parte della vita in uno dei lager nei quali il regime internava questi sradicati, sospettandoli di essere spie e traditori. Nel campo ha lavorato, si è sposato, ha avuto a sua volta dei figli. E quando ne è uscito per andare a conoscere il padre, e l’Italia di cui tanto aveva sentito parlare, ne è stato doppiamente respinto. Per certi versi, Italianesi è uno spettacolo sulla dittatura, sull’oppressione, un enorme spaccato storico colto però in una chiave minimalista, come a esorcizzare i toni della tragedia osservandola con occhi perennemente infantili: la detenzione è una guardia che decide quando si può andare in bagno e quando bisogna tenersela, sono le madri che denunciano i figli per salvare altri figli. La libertà sono i piccioni che mangiano pezzi di biscotti, sul suolo italiano. “Ma sono libero veramente?”. In questo interrogativo sta tutto il succo del racconto. E tuttavia anche gli avvenimenti più concreti, nell’intensissimo approccio di Saverio, sono colti in una luce puramente emotiva. La sua è una scrittura tutta fatta di sfumature, dove ciò che non accade è più importante di ciò che accade: qui non c’è, come nei due precedenti monologhi, la rabbia, l’ardore della protesta, c’è una straordinaria prova interpretativa interamente sviluppata sui registri dello stupore e della tenerezza, una musica del ricordo, una sinfonia di sentimenti scanditi da un impalpabile ma incalzante ritmo interiore. Le speranze, le delusioni, gli affetti traditi sono espressi in una lingua morbida e sinuosa, un calabro-italiano dolcissimo come le parole che slittano sulle “i” impropriamente accentate, la “pì- ega” il “cì-elo”. Accompagnato dalle note di Roberto Cherillo, che riempiono le pause di silenzio, il protagonista non si lamenta, non accusa, si rivolge alla platea con fare timido, sommesso: e a commuovere non è tanto la vicenda in sé, quanto il modo in cui lui la espone, con toccante adesione, ma senza un briciolo di retorica.

Renato Palazzi – Il sole 24 ore – 12.02.2012

Mi infastidiscono quelli che non vanno a vedere gli spettacoli, che non sanno nulla di ciò che accade nei teatri ma continuano a rimpiangere i bei tempi andati, quando c’erano i grandi attori, quando c’erano i grandi registi, quando si scrivevano dei testi che oggi invece, figuriamoci, te li sogni. Mi infastidiscono perché non è così, per diverse ragioni. In primo luogo, non è vero che il passato è sempre stato luminoso: c’erano grandi artisti, di sicuro, come ci sono sempre stati, ma c’era anche tanta produzione scadente, di puro consumo. E poi questo rimpianto di chissà cosa, di chissà chi impedisce loro di vedere gli autentici talenti del presente, che sono molti e che spesso hanno davvero poco da invidiare a quelli che si sono imposti in anni ormai lontani. Prendiamo, ad esempio, Saverio La Ruina, che è uno straordinario attore, ma anche un autore di altissimo livello, e un bravissimo organizzatore, capace di creare praticamente dal nulla – col suo compagno di lavoro, Dario De Luca – un festival importante come Primavera dei Teatri, in una cittadina calabrese lontana da tutto come Castrovillari. Se qualcuno ancora non lo conosce, deve sapere che Saverio si sta avviando a diventare un Eduardo dei nostri giorni, con la stessa acutezza interpretativa, con la stessa felicità nel racchiudere in una smorfia, in un’intonazione tutto il senso di un’intera vicenda, con lo stesso dono di attuare una scrittura finalizzata alla recitazione, ma perfettamente in grado di cogliere le più minute sfumature della vita. Vi chiedete come mai non se ne senta parlare – dai giornali, dalle televisioni – secondo i suoi meriti? In realtà non si può dire che Saverio abbia pochi spettatori. In Italia ha un suo pubblico niente affatto marginale, che però è il pubblico della nuova scena, di un teatro che ormai non può essere neppure definito di ricerca, chiamiamolo il teatro che si muove, che va avanti. E all’estero sta riscuotendo sempre più successo, benché parli un idioma che anche per noi è di ardua decifrazione. Però ancora non è arrivato alle grandi istituzioni, quelle che smuovono migliaia di abbonati e sanciscono la popolarità di un fenomeno: e non ci è arrivato per ignoranza loro, per distrazione, per inveterata tendenza a creare steccati. Così, continua a esserci un divario tra ciò che vale e ciò che ottiene ampi riconoscimenti. A dare lustro e prestigiosi premi a Saverio La Ruina – dopo un lungo cammino col suo gruppo, Scena Verticale, di cui vanno almeno ricordati Hardore di Otello e Kitsch Hamlet – sono stati in special modo due monologhi, Dissonorata e La Borto, in cui ha affrontato il tema delle vessazioni e delle sopraffazioni cui erano e sono ancora sottoposte le donne del nostro Sud: a colpire è stata la sua lingua personalissima, impervia ma fortemente espressiva, e soprattutto il suo modo di recitarli, col solo aiuto di una sedia e dell’accompagnamento di un musicista, in abiti né del tutto maschili né del tutto femminili, in virtù di un’identificazione con le protagoniste che è mentale prima ancora che fisica, fatta di movenze, atteggiamenti, posture. Da tutt’altro argomento parte il suo nuovo spettacolo, l’irresistibile Italianesi, che racconta una storia bellissima ispirata a una realtà drammatica e poco conosciuta, quella degli ex militari italiani – e dei loro figli – che in Albania, dopo la seconda guerra mondiale, hanno dovuto subire la persecuzione del regime, e sono stati costretti a lunghi anni di detenzione nei campi di prigionia. In questo caso rinuncia quindi a incarnare alla sua maniera il punto di vista delle vittime di delitti d’onore e soprusi domestici, per sfoggiare invece l’incerto passo claudicante e il dimesso maglioncino di un sarto che è cresciuto e ha trascorso quarant’anni in uno di questi lager, dove ha imparato a lavorare e messo su famiglia. Il narratore, il cui padre è stato espulso dall’Albania quando lui era bambino, è cresciuto fra due patrie, quella in cui è nato e l’Italia di cui tanto ha sentito parlare – terra di libertà, e di inesauribili bellezze – senza davvero appartenere a nessuna delle due: e infatti quando, dopo la caduta del comunismo, gli verrà riconosciuta la cittadinanza italiana, a tal punto si sentirà accolto come un estraneo senza radici da fare presto ritorno al Paese che l’aveva oppresso e segregato. Pochi anni prima aveva avuto – come una straziante metafora – un’analoga esperienza sul piano per così dire privato: gli era stato accordato il permesso di andare infine a conoscere l’anziano genitore, ma questi lo aveva trattato con tanta freddezza da indurlo a rompere per sempre ogni legame. E’ una vicenda amara, che apre un doloroso spaccato su un’ignota tragedia che ha toccato migliaia di persone. Saverio la rievoca come sa fare lui, con una mitezza disarmata, senza rabbia, ma anche senza traccia di patetismo. Tutto ciò che deve dimostrare è già scritto nel destino del personaggio, in quell’impossibilità di una vera scelta, in quella dolce consapevolezza di sconfitto, seppure mai del tutto rassegnato. è già scritto nel suo corpo piegato sotto il peso di un’insanabile delusione, le spalle un po’ incurvate, le mani umilmente raccolte davanti. Come Eduardo, appunto, Saverio sa usare un alfabeto di piccoli gesti allusivi, in grado di arrivare dove non arriva la parola. Come Eduardo, manifesta un affetto per i suoi personaggi che è il riflesso di una più alta comprensione per l’uomo. E il suo dialetto è un impasto morbido e duttile, come una musica interiore.

Renato Palazzi – Linus – 15.03.2012

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