Scena Verticale

Rassegna StampaRassegna Stampa – Via del popolo

MILANO – Mentre assistevo alla «prima» nazionale dell’allestimento del nuovo testo di Saverio La Ruina, «Via del Popolo», presentato da Scena Verticale al Teatro Menotti, mi è tornato in mente «Co’Stell’Azioni», uno dei più belli e significanti fra i copioni di Enzo Moscato. Vi s’immagina che, nella magica notte di fine d’anno, i Morti vengano tra i Vivi: «[…] per farvi sapitori ‘e sta ferita, / per chiedervene scusa, / scusa e perdono di una differenza, / dello stare nel diverso di un altrove».

Ebbene, la caratteristica pregnante e il pregio straordinario di «Via del Popolo» stanno nell’annullamento di quella «differenza» e di quella «diversità» e, dunque, nella trasformazione dell’«altrove» nel qui. E tanto a cominciare dalla sequenza d’apertura: La Ruina dice che, quando torna al paese, insieme con l’amico Tonino fa sempre una passeggiata nel cimitero; e aggiunge che davanti alla lapide del padre «ci sono sempre fiori freschi, anche quando mamma non può. Sono per le lapidi più in alto, ma siccome quella di papà è la prima in basso, pare che i fiori li portino apposta per lui».

In breve, «Via del Popolo» mette in moto un’inarrestabile (e ad un tempo virtuosistica e commovente) girandola di slittamenti e dislocamenti di senso, che nascono e si susseguono nello spazio fra il desiderio delle cose e il loro effettivo essere. Lo spazio, appunto, tra il fatto che i fiori davanti alla lapide del padre di Saverio sono stati portati ai morti le cui lapidi stanno più in alto e l’impressione che siano stati portati a lui, la cui lapide sta in basso. In altri termini, al testo di La Ruina si potrebbe apporre come epigrafe l’avvertimento decisivo che riguardo a se stesso diede Carmelo Bene: «Io sono là dove manco».

 

La strada richiamata nel titolo è quella di Castrovillari in cui Saverio ha trascorso in pratica tutta la vita e tuttora abita. E lui dichiara che a percorrerla sono due uomini, uno del presente e uno del passato: il primo impiega a percorrerla due minuti, il secondo trenta. Sicché scopriamo subito che il tema centrale di «Via del Popolo» è il tempo, che poi, ovviamente, configura proprio lo spazio fra il nostro desiderio delle cose e la constatazione dell’autonoma consistenza delle stesse.

La battuta-chiave, allora, è quella che pronuncia zio Nicola quando regala a Saverio un orologio, un cronometro Omega degli anni ’70: «Tè, Savè, cu quistu si patronu d’u tìampu, u poi firmà, u poi fa jì annanti e u poi fa jì arrìatu, insomma ci poi fa quiddu chi vùai».

Sarebbe inutile precisare che l’uomo del presente e l’uomo del passato sono la stessa persona vista in età diverse e che quella persona è Saverio La Ruina. Ma la precisazione serve ad indicare che qui si tratta non solo del predetto spazio fra il desiderio delle cose e le cose in sé, bensì (ed è questo l’approdo alto del testo) soprattutto del rapporto strettissimo che si stabilisce fra il desiderio delle cose, le cose in sé e colui che di quel desiderio e di quelle cose scrive.

Ripenso, nel merito, alla profondissima osservazione di Charles Singleton circa il capolavoro dantesco: nella «Commedia» ha luogo la rappresentazione di un «doppio viaggio», «un duplice “itinerarium ad Deum”»: un «viaggio letterale», in cui «il protagonista è determinato», è Dante, e un viaggio allegorico, in cui «il viandante è qualsiasi cristiano: l’”homo viator”… Che tale viaggio “hic et nunc” sia una possibilità aperta a tutti, resta il postulato fondamentale e, per Dante, la dottrina su cui egli può costruire l’allegoria della “Commedia”… In nessun punto dell’opera queste cose ultraterrene vengono presentate come visione o come sogno. Queste cose accaddero, e il poeta che fece quel cammino in carne e ossa e le sperimentò, è, ora che è tornato, uno scriba che le registra come avvennero».

 

Per la cronaca, Saverio La Ruina rievoca puntigliosamente tutti i personaggi più in vista che un tempo animarono Via del Popolo: Pino del Ristorante Pino, che beveva un bicchierino di Kambusa dietro l’altro, De Simone, il bigliettaio del cinema Ariston, Giannino l’elettricista che aggiustava gli elettrodomestici con un semplice colpetto, il sarto zoppo Mastu Giuvannu che si vestì per sempre a lutto dopo la morte della signora Ida, la proprietaria della merceria della quale era stato segretamente innamorato, Tonino il macellaio, che somigliava spiccicato a James Caan de «Il Padrino», zu Franciscu e mastu Ninu, che avevano praticamente attaccati, non più di 20, 30 centimetri fra l’uno e l’altro, i negozi di alimentari e falegnameria, il dottor Schwarz, capace di fare ingessature che sembravano il ponte di Calatrava…

 

Ma, mi affretto a sottolinearlo, il testo di La Ruina non si arena nelle sabbie mobili di una sterile nostalgia da «amarcord». A parte il fatto che la rievocazione di quei personaggi, delle loro attività e persino dei loro vizi obbedisce allo scopo di richiamare l’attenzione sulla perdita di valore umano e di posti di lavoro prodotta dal passaggio alla società globalizzata, con la sostituzione dei supermercati ai negozi, una salutare e leggera (leggera come un’affettuosa carezza) ironia interviene a «straniare» l’esercizio della memoria.

Quando l’uomo che impiega trenta minuti a percorrere Via del Popolo chiede a De Simone: «U putimu vidi stu filmu o è mìagghiu ca ni stamu a la casa?», il bigliettaio del cinema Ariston risponde: «Vidi tu, tantu sti bell’attrici un è c’aspettinu a tija, u film u fanu u stessu». E accade che, data la vicinanza dei negozi di zu Franciscu e mastu Ninu, il panino con la mortadella del primo ha il sapore del legno e gli infissi del secondo hanno l’odore della mortadella: sicché, se ti distrai un attimo, addenti il legno e inchiodi il panino.

 

In un contesto del genere, a poco a poco lo sguardo di La Ruina si allarga fino a toccare dimensioni e circostanze assai più rilevanti rispetto al piccolo mondo di quella strada. E avviene che, tanto per fare un esempio, si dia luogo a una rievocazione dell’epoca dei movimenti extraparlamentari che si fonda, insieme, sulla precisione e sulla partecipazione emotiva.

Si parla del luogo di ritrovo dei giovani attivisti di Lotta Continua, del Collettivo Carlo Marx e di Avanguardia Operaia: «Erano gli anni ’70. Li trovavi appoggiati tutti in fila sul muro del Bar ‘900, con eskimo, capelli lunghi e jeans a zampa d’elefante. Io me ne stavo sul gradino del bar e li guardavo estasiato. Per la prima volta si vedevano ragazzi e ragazze passeggiare insieme. Per la prima volta si vedeva qualcuno che si baciava per strada. Per la prima volta si vedeva la passione, l’allegria. Era una situazione esaltante, che io mangiavo con gli occhi, anche se un po’ in disparte, anche se dai gradini del Bar Rio (il bar gestito dal padre di Saverio, (corsivo)n.d.r.). Una libertà che non s’era mai vista in paese».

Ma, ancora una volta, ecco, ad evitare il rischio della retorica, il ricorso all’ironia demitizzante. La maggior parte della gente di Castrovillari non li capiva, quei giovani, e li guardava con disgusto: «S’i guardisi a rìatu, un si capisci mancu si su masculi o fiammini». E l’uso del dialetto calabrese, che, come si sarà capito, attraversa la gran parte del testo, rende ancora più eclatante, per contrasto, l’apertura al mondo costituita, poniamo, dall’arrivo in quella landa dimenticata del Living Theatre di Julian Beck, con l’annesso muro opposto dagli attivisti politici ai carabinieri che volevano interrompere lo spettacolo di un uomo nudo e legato al quale un altro uomo infliggeva scariche elettriche.

 

Adesso, per chiudere, dovrei dire della bravura che Saverio La Ruina dispiega in quanto attore, avendo alle spalle uno degli orologi molli di Dalì sotto specie, ovviamente, di simbolo dell’elasticità del tempo. Ma, dopo quanto ho scritto, direi parole scontate e inutili. E allora lascio che commenti la prova d’attore di Saverio il Pasquale Lojacono che, in «Questi fantasmi!» di Eduardo De Filippo, dialoga con l’invisibile professor Santanna: «Neh, scusate?… Chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura?… Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente…».