La Repubblica Milano – Sara Chiappori
by on December 21, 2015 in POLVERE

23/01/2015
Di solito sono le donne a parlare delle donne. Soprattutto quando si tratta di violenza e dei rapporti
di potere. Saverio La Ruina è una magnifica eccezione. Dopo aver dato voce in una superba lingua
del sud due figure femminili umiliate e offese (Dissonorata e La Borto), chiude la trilogia con
Polvere dove invece porta in scena la coppia tessendo la trama invisibile di quello che potremmo
chiamare l’apriori del femminicidio, quella zona indistinta dove si nasconde la trappola.
[…] La violenza è tutta psicologica ed emotiva nella sequenza di scene che La Ruina sviluppa in
un micidiale crescendo di tensione e disagio. Un testo semplice solo all’apparenza, perché il suo
peso specifico di minimalismo quasi nordico sta nell’intervallo tra le parole, nei silenzi, nel
ripresentarsi regolare e inquietante delle stesse domande che ogni volta aumentano il carico di
angoscia, nei dialoghi più banali dove tra una tazza di te e una telefonata si conficcano schegge
acuminate. La scena di geometrica asciuttezza, la casa di lei evocata da un tavolo e due sedie, è uno
spazio claustrofobico che sembra farsi via via più stretto e incombente mentre lui incalza e lei
arretra, lui avanza e lei rimpicciolisce, lui assedia e lei si difende. Con qualcosa di minaccioso che
non si vede ma si espande facendoci sentire tutti in pericolo.
La Ruina è attore maestro del dettaglio, del gesto minimo. Fa parlare le dita che tamburellano
nervose sul tavolo, la gamba che si muove irrequieta. Questione di sensibilità, di tocco, di timbri
modulati con asciuttezza che nega la retorica per afferrare l’essenziale. Mentre l’esordiente Jo
Lattari ci sorprende per naturalezza e espressività istintiva nel bel cogliere il patologico
meccanismo a due.

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