LO PSICOPOMPO
by on December 18, 2018 in

scritto e diretto da Dario De Luca
con Milvia Marigliano e Dario De Luca
assistenza alla regia Gianluca Vetromilo
disegno luci Dario De Luca
suono Hubert Westkemper
programmazione Max-MSP Mattia Trabucchi
fonico Matteo Fausto Costabile
costumi e oggetti di scena Rita Zangari
organizzazione generale
 Settimio Pisano
produzione Scena Verticale
con il sostegno di Cosenza Cultura e di BoCs Art Residenze D’artista

Testo vincitore del Premio Sipario Centro Attori 2018

 

Premio UBU 2019
“Miglior progetto sonoro” a Hubert Westkemper
Nomination a Milvia Marigliano come “Migliore attrice”

 

Un uomo e una donna, chiusi in casa, si confrontano sulla morte, sul desiderio di morte. Sia in maniera teorica che come fatto concreto. I due non sono estranei ma una coppia, un certo tipo di coppia, unita da un rapporto importante, intimo. Lui è un infermiere che, in maniera clandestina, aiuta malati terminali nel suicidio assistito e lei è una professoressa in pensione. Il dialogo si dipana in una dialettica serrata ma placida, come una nevicata, anche intorno a riflessioni sulla musica classica, presenza costante nelle loro vite. I due, con i loro rapporti interpersonali complicati, già minati da una sciagura del passato che fa da sfondo alle loro vite, si troveranno ad essere testimoni del mistero della morte e a contemplare l’abisso.

 

Anteprima nazionale: Festival Primavera dei Teatri, Castrovillari –  31 maggio 2019 

Debutto nazionale: Napoli Teatro Festival, Napoli – 15 giugno 2019  

 

HANNO DETTO

la Repubblica – Rodolfo di Giammarco – 3 giugno 2021
«Lascia qualcosa d’indelebile in chi vi assiste, un lavoro tutto basato sulla rinuncia alla vita (e sul mito dei traghettatori di anime) come Lo Psicopompo, scritto, diretto e condiviso da Dario De Luca. Scomode sono le parole tra un figlio infermiere che accompagna i malati terminali alla fine e una madre professoressa (senza patologie, ma orba d’un primogenito) che ha optato per il suicidio. In una casa-urna di Donghi o Hopper visitata da Brian Eno e Kimderose, con olofonia di Westkemper, il destino d’una strepitosa Milvia Marigliano e del laconico De Luca è segnato, comune».

 

la Repubblica Napoli – Giulio Baffi – 15 giugno 2019
«Crudele, doloroso, nato per l’inconsueto palcoscenico di “Primavera dei Teatri”, prodotto da Scena Verticale, scritto e diretto da Dario De Luca, che ne è anche interprete insieme a Milvia Marigliano, “Lo Psicopompo” affronta invece il tema doloroso del desiderio della morte, della scoperta imprevista, della solitudine, della memoria che da crudele si fa intimità consolante, nel bell’incontro tra attori di differente generazione, con Milvia Marigliano ancora una volta inquietante nella sua capacità di costruire personaggi dalla forte valenza tragica appena venata da una crudele e personalissima ironia. Il suono, curato da Hubert Westkemper, è un valora aggiunto non trascurabile per la capacità di invenzione che asseconda l’idea di regia».

 

Il manifesto – Mariateresa Surianello – 8 giugno 2019
«E con Lo psicopompo lo stesso De Luca affonda le mani nella morte, nella sua «accezione» più discussa e, in Italia, negata: l’eutanasia. Un tabù da cui scaturisce la confusione mediatica di questi giorni sul caso Noa Pothoven, la giovane olandese che si è lasciata morire di fame e di sete accompagnata dai genitori.
Presentato a Cosenza, in una delle ventisette strutture di Bocs Art- sorta di villaggio destinato a residenze artistiche sulle sponde del fiume Crati, a un passo dal centro storico – in coppia con una misurata Milvia Marigliano, l’autore-regista si cuce addosso il meditabondo personaggio del traghettatore, svuotandolo da ogni riferimento mitologico e religioso. Con lucida laicità si chiude all’interno del box e avvia una tragedia quasi sussurrata, davanti a sessanta spettatori dotati di cuffie che siedono all’esterno. Pulitissimo il suono, affidato a Hubert Westkemper, rilancia il dialogo dai toni pacati e familiari tra una donna sana che vuole morire e suo figlio».

 

la Repubblica – TrovaRoma- Teatro – Rodolfo di Giammarco – 3 giugno 2021
«Il testo tragico e impressionante mostra un serrato dialogo tra madre e figlio, che si confrontano con calma da brividi sul desiderio di morte. Nonostante il rapporto interpersonale tra i due, la genitrice e l’uomo contempleranno insieme il medesimo abisso. È una riflessione sul fine vita che oltre al valore civile del ragionamento contiene una sfera più privata di mancate passioni. Il progetto sonoro di Westkemper ha avuto l’Ubu 2019»

 

Hystrio – Claudia Cannella – 3/2019
«De Luca […] ne Lo psicopompo, affronta un altro tabù: quello della morte per scelta. Ma da una prospettiva inusuale. La signora […] che chiede il suicidio assistito, non è affetta da una malattia fisica in fase terminale, bensì da una profonda infelicità esistenziale. Questione scottante, che ci mette di fronte a una riflessione necessaria. […] In alcuni Paesi si sono già dati una risposta (vedi il recente caso di Noa Pothoven in Olanda), ma in Italia, dove sul diritto all’eutanasia siamo per varie ragioni ancora molto indietro, il “problema”, posto da De Luca con grande intelligenza e sensibilità, ci costringe ad aprire gli occhi su qualcosa che non avevamo neppure preso in considerazione. E anche solo per questo vale la pena di vedere lo spettacolo che ha realizzato, con massima cura, anche formale (si pensa ai quadri di Hopper e di Magritte), in uno dei box-studio per artisti in residenza del BoCs Art di Cosenza. Lì […] ci troviamo a spiare, con lo sguardo e con l’ascolto, l’interno domestico dove la donna (una Milvia Marigliano di straordinaria intensità e misura) attende la persona che, come lo psicopompo mitologico, la dovrà aiutare a intraprendere l’ultimo viaggio. È un infermiere […] votato clandestinamente alla causa, che, per un bizzarro scherzo del destino, è anche suo figlio. Il dialogo tra i due, serrato ma pacato, diventa anche un’occasione per ritrovarsi, per fare i conti con un doloroso passato (la morte del figlio/fratello musicista) e affrontare quindi insieme il mistero della morte».

 

TeatroECritica.net – Andrea Pocosgnich – 6 giugno 2019
«Non è facile non pensare alla drammatica vicenda accaduta nei Paesi Bassi dopo aver visto Lo psicopompo, testo che segue Il vangelo secondo Antonio e che conferma il drammaturgo di Scena Verticale (Dario De Luca) come una voce da seguire nel panorama della drammaturgia contemporanea. Perché ancora una volta egli riesce a sondare questioni e temi legati alla narrazione di storie particolari facendole però rispondere a necessità e sentimenti generali, se non addirittura epocali, come accade in questa ultima scrittura.   
L’autore calabrese agisce con penna chirurgica, procedendo con il silenziatore; […] La vicenda è già data: come se in una tragedia classica arrivasse sin da subito un messaggero in grado di fornire tutti i fatti. Il resto è un avvitamento tra il passato famigliare e il presente sul quale batte incessante la linea di una nota grave e continua: la morte, o meglio la scelta di morire.          
[…] al debutto a Primavera Dei Teatri […] il dispositivo ha segnato profondamente l’immersione dello spettatore condizionandone visione e ascolto. Lo psicopompo è stato infatti allestito a Cosenza, a due passi dal fiume, in quel luogo tanto straniante quanto affascinante che è il complesso BoCs Art. […]. La cura del suono di Hubert Westkemper si trasforma nelle orecchie dell’ascoltatore in una puntuale sonorizzazione della scena. […] La grande vetrata è una quarta parete inscalfibile che allontana la platea, la quale però subito si riavvicina grazie alla bolla creata da Westkemper, che di fatto è una stanza accogliente, nella quale possiamo entrare di soppiatto, in un apparente voyeurismo collettivo che in realtà è cassa di risonanza dell’intimità. Gli interrogativi di cui si nutre il testo arrivano dritti alle orecchie del pubblico […]. È talento puro Milva Marigliano, strumento umanissimo di creazione dei sentimenti attraverso un registro di variazioni che si nutre di sincerità e sorprendenti colori. […] Finale struggente e delicato che si palesa di fronte agli occhi dello spettatore, il quale è costretto a guardare ancora dietro alla vetrata: due volti coperti e ravvicinati, come i due amanti di Magritte privati dell’abbraccio. Qui non c’è speranza, non c’è abbraccio, se non la possibilità di una laica condivisione».

 

la Repubblica – Rodolfo di Giammarco – 19 giugno 2019
«Su questa linea d’ombra di spettacoli fondati su persone che ci sono e non ci sono, al Napoli Teatro Festival (fino al 14 luglio) si sono annoverati […] il tragico e impressionante mistero di fine vita con Lo Psicopompo di De Luca, lavori, questi ultimi due, battezzati alla Primavera dei Teatri di Castrovillari e molto in sintonia col tema dell’ultramondano dell’apertura del Napoli Teatro Festival».

 

Ateatro.it – Fernando Marchiori – 14 giugno 2019
«A volte realtà e teatro giocano a riconcorrersi, si superano a vicenda. Significa che la materia brucia, che il lavoro ha senso. Che l’arte tocca un nervo scoperto del presente anestetizzato. Con Lo psicopompo Dario De Luca mette in scena una riflessione sul fine vita che farà discutere. E la presenta […] in modo diretto e perentorio mentre langue in Parlamento dal 2016 una legge in materia e mentre echeggia la vicenda, maldestramente fraintesa dai media italiani, di Noa Pothoven […]. Ancora inedito, il testo dello spettacolo, firmato dallo stesso regista, ha ottenuto il Premio Sipario Centro Attori 2018 […]. Il raffinato disegno luci e la scelta di far seguire lo spettacolo in cuffia (con la perfetta regia fonica di Hubert Westkemper) determinano un’atmosfera asettica che ricorda gli interni di Edward Hopper. Si scopre subito che i due sono madre e figlio […] Costretti a un’agnizione estrema, si trovano prigionieri di una gabbia di tensioni e coincidenze di sapore pirandelliano. […] La pièce si sviluppa sull’esile filo che separa un istinto di vita prosciugato dal disamore, dalla perdita, dalla memoria insostenibile di un passato felice, e un istinto di morte fermentato lentamente e ormai pronto a metabolizzarsi in energia distruttrice. […] La morte, il suo desiderio, il suicidio come resa, aberrazione, scelta moralmente riprovevole o come atto estremo di libertà e autocoscienza, gli aspetti tecnici e giuridici del dare e ricevere la morte sono trattati in modo serrato e sobrio, ma con un’urgenza dettata dalla situazione contingente che riporta sempre i personaggi alla concretezza, lasciando agli spettatori la possibilità di sviluppare per proprio conto […] i riferimenti filosofici impliciti (dal Seneca delle Lettere a Lucilio allo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione fino al Freud del Disagio della civiltà). […] Milvia Marigliano è straordinaria interprete di una figura difficilissima da prendere sul serio. Ed è brava anche nell’adattarsi alla novità tecnica che le consente di lavorare su un’emissione franta, sussurrata. Si sente il sospiro, il singhiozzo trattenuto, il nodo in gola. L’interpretazione di De Luca è misurata e generosa nel farsi da parte, nella stasi, nella postura dell’ascolto e della pietas».

 

Doppiozero.com – Angela Albanese – 14 giugno 2019
«[…] nascosta fra le righe anche qualche garbata citazione, come quella sugli stormi tratta dall’Altrui mestiere di Levi; riflessioni sulla morte, discorsi e ricordi carichi di tensioni mai risolte tra una madre, che rivendica il suo diritto di scegliere come e quando morire – il diritto di morire felice e lasciare la vita senza paura, direbbe Hans Küng (https://rizzoli.rizzolilibri.it/libri/morire-felici/) – e un figlio, professionista della morte, ma prima di tutto figlio. […] Questa intensa prova teatrale di De Luca, […] ha richiesto un lavoro lungo e costante in questi ultimi anni, fatto di confronti e di letture approfondite, anche condivise. Una prova che conferma il raggiungimento di una maturità tanto drammaturgica quanto registica di De Luca, di cui non si può non apprezzare il coraggio di inoltrarsi in spazi tematici impervi e scomodi, qui la morte e in precedenza i suoi contorni […] Questioni e temi coraggiosi, appunto, coraggiosi e rischiosi come può esserlo il teatro […] Teatro come tempo dell’attenzione e spazio di dilatazione dell’esperienza, quella degli artisti e quella di noi spettatori».

 

Corrierespettacolo.it – Claudio Facchinelli – 4 luglio 2019
«Il pubblico, che si trova all’aperto, di fronte alla grande vetrata di una sorta di casa vetrina, vi assiste con una partecipazione empatica, quasi indiscreta, grazie al raffinato disegno sonoro di Hubert Westkemper, che trasmette in cuffia le sfumature più segrete cui una Milvia Marigliano, al meglio della sua maturità professionale ed umana, conferisce i toni di dolorosa ma contenuta disperazione. In più, una sorprendente, densa partitura di suoni e rumori obbliga lo spettatore a sollevare di tanto in tanto la testa, per sincerarsi della provenienza di uno scoppio di un tuono, del passaggio di un aereo. Fino al colpo di scena finale. Una scommessa coraggiosa, quella di Dario, ma vincente: sia sul piano della scrittura e della regia, sia su quello attorale, nell’impegnativo confronto con Milvia».

 

Recensito.net – Tommaso Chimenti –  18 giugno 2019
«[..] Dario De Luca, una dei tre pilastri di Scena Verticale e di Primavera dei Teatri, che nel suo precedente spettacolo aveva impersonato un sacerdote affetto da alzheimer, “Il vangelo secondo Antonio”, stavolta (suoi testo e regia di questo duetto ben congegnato) orchestra attorno ad un infermiere che porta clandestinamente una dolce morte a chi è gravemente malato, donando sostegno e solidarietà. Il plot ricorda la pellicola “Miele” di Valeria Golino con Jasmine Trinca e Carlo Cecchi. Sulla scena lo stesso De Luca e la straordinaria, da premio, Milvia Marigliano […]. Se a questo ci aggiungi che l’ingegnere del suono è Hubert Westkemper che aveva ideato per il debutto-site specific di Cosenza un impianto di cuffie per gli spettatori […] la pièce prende quel respiro e quella rincorsa da piccolo cult. Proprio nei giorni nei quali una ragazza olandese di diciassette anni si è lasciata morire a casa[…] il tema dell’eutanasia non si è affatto sopito […]. In un interno borghese, con il fondale che sembra uno schermo cinematografico semovente che nell’ultimo quadro si fa “vetro” e incastona gli attori in una distanza (starebbe perfettamente all’interno di un museo come installazione), dentro la loro bolla di vetro come pesci in apnea, una donna ha deciso di morire […] Contattando in maniera carbonara uno specialista che effettua questo tipo di servizi incontra il figlio, è lui “lo Psicopompo”, il Caronte. La Marigliano (con Maria Paiato una delle migliori attrici della sua generazione) è una Madonna sofferente, una dolente Madre Coraggio, ha la grinta di Frances McDormand in “Tre manifesti ad Ebbing”, ha dentro la forza contrita della Pietà Rondanini, ha quella carica solenne che può esplodere da un momento all’altro, quell’adrenalina composta e la miccia lì pronta ad infiammarsi in un attimo. La sua è una sofferenza compassata, dignitosa, mai lamentevole, integra seppur piegata e piagata dalle intemperie della vita. Madre e figlio davanti all’interrogativo etico se sia giusto porre fine alla propria esistenza. In un susseguirsi di stati d’animo che mutano e fluttuano, sottolineati da musiche enfatiche e da pose che rimandano ad opere classiche, il testo si innalza a forma universale estraniandosi dal tempo (in sospensione c’è un qualcosa di intimo e sotterraneo che ci portato nell’atmosfera di “Morte di un commesso viaggiatore”), ponendosi in uno spazio che a tutti appartiene, che ogni epoca abbraccia. Siamo sussulti, siamo silenzi, siamo attese: “E’ difficile soffrire in modo simpatico”. Rimaniamo galleggianti tra “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci e “Gli amanti” di Magritte: toccante».

 

Gazzetta del Sud – Elisabetta Reale – 5 giugno 2019
«Capita, a volte, che un luogo scelto per provare uno spettacolo – i BoCsArt di Cosenza […] – diventi perfetta ambientazione per la narrazione. Intimo, privato, uno spazio in cui parole e pensieri vengono offerti al pubblico attraverso lo schermo di un vetro e risuonano grazie a delle cuffie. Una visione solo apparentemente privata capace altresì di sollevare una riflessione comunitaria. […]  Come “Lo psicopompo”, ovvero il traghettatore delle anime nell’aldilà. Ambientato in un luogo freddo e asettico come le esistenze dei protagonisti, con una parola affilata e un sottofondo musicale che ne acuisce umori e sentimenti, “Lo psicopompo” indaga quella volontà di morire non in presenza d’una malattia terminale ma di un male di vivere che spegne palpiti e desideri. Un tema fortemente politico e profondamente umano quello affrontato con delicatezza e pudore da De Luca, calato sui corpi di un uomo e di una donna, un infermiere che aiuta in maniera clandestina malati terminali al suicidio assistito e una professoressa in pensione, legati da un particolare rapporto affettivo, portatori di un immenso disagio e di una straziante malattia dell’anima. Perché per combattere dolore, solitudine, vuoto, sconfitte a volte si può “scegliere” la morte, come nello spettacolo decide di fare la donna splendidamente tratteggiata nel suo tormento da Milvia Marigliano. La casa/vetrina diventa luogo dell’incontro verbale tra i due, delle rivendicazioni e delle contrattazioni, tra parole, bisbigli, passi, respiri, sino al silenzioso epilogo».

 

Paneacquaculture.net – Ilena Ambrosio – 8 giugno 2019
«E si parla di morte, anche in Lo Psicopompo, scritto e diretto da Dario De Luca che debutta in casa, con grande emozione generale. Si parla di morte che è un po’ come parlare di vita se, come afferma Spinoza «quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione sulla vita». Rivendica proprio libertà la protagonista, libertà di scegliere di porre fine alla propria esistenza. […]
La coppia appare nel momento immediatamente successivo l’agnizione, nello sconvolgimento della detonazione. […] i due interpreti riescono nel non facile compito di restare in equilibrio tra i piani, di non cedere a patetismi – pur nell’inteso sentimento della rappresentazione – né a pedanteria dialettica. Lo spettatore, intanto,  è letteralmente immerso in questo dialogo. Il lavoro nasce, quasi site specific […]. Qui si svolge l’azione che seguiamo con delle cuffie. Il suono curato da Hubert Westkemper ci è restituito nei minimi dettagli, rotondo, avvolgente, a vantaggio anche della musica, elemento fondamentale della pièce. È come se si annullasse la distanza da quello spazio altro e definito, abitato dagli interpreti di fronte a noi, e ci si ritrovasse lì dentro, con loro. Un’operazione davvero magistrale. […] Una comunicazione a più livelli che rende Lo Psicopompo una riflessione intima ma insieme universale e politica».

 

Inscenaonline.net – Giuseppe Condorelli – 7 giugno 2019
«Una quarta parete supplementare e trasparente, una enorme vetrata, luminosa nella notte: perché nessuno assiste, tutti – piuttosto – spiano e ascoltano, appostati nel buio della platea con tanto di cuffie stereofoniche. Verrebbe subito da pensare a “La conversazione” di Coppola o alle “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck. Ma “Lo psicopompo” di Dario De Luca, che ne è pure regista e interprete insieme ad una splendida Milvia Marigliano – al debutto negli spazi suggestivi dei Bocs Art di Cosenza […] è invece una riflessione sul (non)senso della morte post-contemporanea, rimandando ad un’altra e assai più diversa “guerra fredda”: quella tra una Madre e un Figlio. Sulla scena, l’interno spoglio di una casa, solo una dormeuse: tangibile allusione (freudiana) alla necessità di una confessione, di un dialogo. Una donna si aggira in quel vuoto: e la tecnica olofonica – davvero encomiabile il lavoro di Hubert Westkemper sul suono – consente al pubblico non solo una percezione assai precisa dello spazio che percorre ed in cui vive ma circoscrive simbolicamente l’imbarazzante reticenza sulla Morte nella modernità nella dimensione del segreto. […] A dominare l’atto unico è un senso assoluto di vuoto – e non a caso stillano le note da “Ambient 1” di Brian Eno – di piattezza che l’asetticità delle nude pareti, il taglio hopperiano di luci e di scena sottolineano chiaramente. […] lo spettacolo perlustra dignitosamente la dimensione abissale di una guerra intima che, alla fine, sarà senza vinti né vincitori.  E il senso di una scelta senza ritorno che poco a poco diventa comune, di due distanze che inesorabilmente si accorciano, pare consistere, allora, in un ultimo e definitivo contatto di mani che affida entrambi all’abisso ma che, forse, li redime».

 

Klpteatro.it – Elisabetta Reale – 18 giugno 2019
«Si può scegliere di morire anche se non si è affetti da una malattia terminale, perché talvolta i dolori dell’anima possono essere ugualmente atroci e insopportabili tanto quelli del corpo.  Parte da questo assunto Dario De Luca ne “Lo psicopompo”, affrontando un tema che, solo pochi giorni dopo l’anteprima, diventa di “pubblico interesse” per la vicenda di Noa Pothoven […] Di morte e di guarigione, dell’anima più che del corpo e della possibilità di continuare a scegliere per la morte come lo si è fatto per tutte le cose della vita, parla “Lo psicopompo” (il testo è vincitore del Premio Sipario Centro Attori 2018), ovvero il traghettatore delle anime nell’aldilà. E lo fa – almeno per l’anteprima nazionale […] – in uno spazio privato, quasi claustrofobico, in cui parole e pensieri vengono offerti al pubblico attraverso lo schermo di un vetro e risuonano grazie a delle cuffie […] curatissimo il suono, grazie al lavoro di Hubert Westkemper […]. Un tema fortemente politico e profondamente umano, affrontato con delicatezza e pudore da De Luca grazie alla storia di un uomo e una donna. […] Perché per combattere dolore, solitudine, vuoto e sconfitte a volte si può “scegliere” la morte. Come decide di fare la donna, pienamente tratteggiata nel suo tormento dalla Marigliano. Dimesso, chiuso nella sua camicia di un colore anonimo, De Luca occupa uno spazio liminare nella casa/vetrina che diventa luogo dell’incontro verbale tra i due, delle rivendicazioni, dei ricordi e delle ferite del passato, che tra parole, bisbigli, silenzi che paiono interminabili, passi pesanti, sospiri e respiri, riemerge in tutto il suo pesante carico emozionale. Un fardello che i due non sono mai riusciti a condividere in vita e che li accompagnerà sino al silenzioso epilogo in cui, per una volta, si avvicinano. […] Gli spettatori godono di una visione solo apparentemente privata, capace altresì di sollevare una riflessione comunitaria. Ambientare la narrazione in un luogo spoglio e asettico, quasi come le esistenze dei protagonisti, acuisce il senso di profonda solitudine che attanaglia entrambi; per loro solo una dormeuse, dove poter appoggiare quei corpi stanchi che combattono una personale partita con la vita e tra di loro, attraverso una parola affilata, mai eccessiva, e un sottofondo musicale che, come un contrappunto dell’anima, ne acuisce umori e sentimenti».


Losguardodiarlecchino.it – Igor Vazzaz – 20 gennaio 2022
«[…] Una scherma drammatica serratissima, a tratti violenta, eppure misurata nei toni e nei gesti[…] Applausi per un lavoro denso».

 

NOTE CONFUSE

Sulla Morte

nota #1

Albert Camus diceva che giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.

Ci sono persone che implorano misericordiosamente che venga posta fine alle loro esistenze minate dalla malattia, e ormai la “società civile”, in tutta coscienza, accoglie e accetta questo grido di aiuto che proviene da chi, tra mille dolori atroci, vive attaccato a delle macchine e non ne può più di un’esistenza senza speranza. Questo avviene anche in Italia, dove il pensiero comune è un passo avanti alla legislazione vigente.
Ma è la stessa cosa se il desiderio di porre fine ai propri giorni è espresso da chi è affetto da patologie psicologiche? Le patologie cliniche e quelle psicologiche hanno gli stessi diritti ai nostri occhi? Mi si dirà che le malattie appunto chiamate terminali portano alla morte, spesso tra grandi dolori e svilimento della dignità della vita, mentre i cosiddetti dolori dell’anima no. Ma i dolori dell’anima sono meno atroci di quelli fisici? E non sviliscono altrettanto la vita? In questo secondo caso, a chi la pensa in maniera diversa dalla mia, verrà facile parlare di suicidio o, in termini giuridici, di omicidio del consenziente. Può darsi. Ne Lo psicopompo si parla di volontà di morire, quindi di suicidio, anzi, più precisamente di eutanasia attiva, visto che la protagonista non compie da sola l’atto finale di togliersi la vita ma lo delega a soggetti terzi.
Il suicidio, nella percezione comune, rimane lo scandalo supremo, il gesto inaccettabile. Il diritto lo ha giudicato per molto tempo un reato, la religione lo considera peccato, condannandolo come atto di apostasia; la società lo rifiuta, tendendo a sottacerlo o a giustificarlo con la follia, quasi fosse l’aberrazione antisociale per eccellenza.
Io penso che il suicidio è semplicemente un metodo mediante il quale possiamo trasformare il morire da una casualità ad una scelta. Come ogni atto che compiamo nella vita, l’atto che vi pone fine non riguarda la medicina, mentre riguarda moltissimo l’anima.
Come dice James Hillman anziché spiegare il desiderio di morire liquidandolo, chiediamo di comprenderlo un po’ meglio.

nota #2

“Morto” è un sostantivo nonché un aggettivo che si forma dal participio passato del verbo “morire”. Il participio passato indica una cosa già avvenuta, terminata; come se fosse l’argine all’interno del quale viene contenuto un verbo all’infinito per circoscriverlo, imprigionarlo. La parola morto, dunque, contiene il morire ma lo circoscrive, ne arresta il fluire. Se il morire è qualcosa che non si può neppure descrivere come esperienza, non si lascia pensare, è un trauma che non si può percepire, come diceva Christopher Burney significa vivere ma col segno meno ad infinitum, allora la parola morto è quella a cui ricorriamo per pensare l’impensabile. L’escamotage necessario al quale ricorriamo per rendere tollerabile quello che è insostenibile.
Mi rendo conto che il mio agire teatrale è mosso da questa ossessione: dare forma concreta all’impensabile della morte. La messinscena come quel complesso di operazioni che fa comparire la morte.

nota #3

Io ho scelto di dire quello che avevo da dire, nella consapevolezza che è una follia. L’umana fragilità, e la mia personale, pone limiti insormontabili al mio operato. Chiedo fin da subito venia a tutti e invito tutti a tener conto di una semplice considerazione: se vogliamo poter sopportare la vita, disponiamoci ad accettare la morte.

 

Sulla Musica 

La trama della pièce si intreccia a delle digressioni ecfrastiche intorno a dei brani di musica classica che, oltre a scandire il tempo della rappresentazione, aprono squarci di riflessione sul potere della musica sulla vita dell’uomo.
La musica colta è stata ed è la colonna sonora della famiglia raccontata nel testo e nella pièce due brani hanno una grossa importanza: il Così parlo Zarathustra (1896) di Richard Strauss e Music for airports (1978) di Brian Eno.

nota #1

L’opera di Strauss è un poema sinfonico che allude, come tutte le opere sinfoniche, ad uno scritto letterario sul quale modella il suo percorso. In questo caso il testo di riferimento è l’omonima opera filosofica di Nietzsche. Il filosofo tedesco si pone l’obiettivo di analizzare il rapporto dell’Uomo con il Cosmo, la sua posizione nell’esistenza. Nietzsche ci enumera le varie reazioni dell’uomo davanti l’universo: il terrore, lo smarrimento, il rifugio nel conforto della religione, la razionalità, fino all’emergere del Super-Uomo e allo stato di coscienza di sé.
Nell’opera l’introduzione, che dura poco più di un minuto, oltre che essere uno degli incipit più conosciuti, se non il più conosciuto, nella musica classica, è un inizio a dir poco folgorante. Esso si stampa nella memoria uditiva per sempre. Quest’introduzione è l’erompere della forza della Natura, è il monito del Cosmo sull’uomo. Eppure Strauss rinuncia a questo inizio per tutti i restanti trenta minuti di opera sinfonica; questo inizio non tornerà più. Perché? Siamo sicuri che Strauss affermi la stessa cosa di Nietzsche? Cioè: siamo sicuri che la sua musica incarni il dettato del filosofo o invece se ne discosta, andando addirittura a negarlo?

Alessandro Solbiati giunge ad una tesi che io ho trovato illuminante: Strauss era un compositore infinitamente bravo; lui nel suo poema sinfonico, dice Solbiati,  afferma la sua verità che va al di là di Nietzsche: il Super-Uomo non regge il confronto con la potenza del Cosmo. L’uomo davanti alla Natura resta immobile, quasi annichilito davanti l’Abisso. Il vero uomo cosciente, per Strauss, accetta la sua inferiorità nei confronti della Natura.

Lo psicopompo ha la stessa struttura dell’opera che prende a modello: parte in maniera improvvisa, catapultandoci immediatamente nel dramma, per poi proseguire in maniera placida. La protagonista si è già interrogata sulla sua posizione nell’esistenza e ha preso la sua decisione. Come afferma Spinoza: << Quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione della vita >>. Ora la donna dovrà convincere il suo interlocutore – che per uno scherzo del destino è suo figlio – e rendere possibile l’esperienza che gli è negata altrove: l’esperienza della morte.  Insieme accetteranno il mistero della morte e contempleranno l’abisso.

nota #2

L’altro brano musicale viene invece scelto per “accompagnare” la scena e, più precisamente, tutto il finale dell’opera teatrale.

Music For Airports più che un disco è un trattato di musicologia, una sintesi definitiva di quella stagione di ricerche sonore avviata da Erik Satie nel 1888 con il brano Gymnopedies e proseguita negli anni 60 e 70 da pionieri come Terry Riley, Steve Reich e John Cage, oltre che dallo stesso Brian Eno. È solo con la pubblicazione della sua opera, infatti, che viene ufficialmente coniata l’espressione “ambient-music”: la musica come arredamento, gli ambienti come gigantesche scatole da riempire di suoni. La fine del concetto tradizionale di ascolto e la nascita di un nuovo genere di colonna sonora, studiata per accompagnare spazi, non immagini. Mutilata delle sue tradizionali strutture armoniche, la musica diviene nient’altro che parte di un ambiente – che sia la sala d’attesa di una stazione o il padiglione di un aeroporto – ne assorbe l’atmosfera e i rumori, tramutandosi in un sottofondo che non richiede più un ascolto accurato.

L’ambiente scelto da Brian Eno è dunque l’aeroporto, crocevia internazionale, punto d’arrivo e di partenza, luogo di incontri e di separazioni, di attese e di tensioni. L’obiettivo di Eno è infondere nei suoi frequentatori un senso di calma e di speranza, stemperandone progressivamente lo stress.
È questo il brano che il figlio consiglierà alla madre di ascoltare e sarà la musica che farà da sottofondo all’incontro, finalmente vero e profondo, tra madre e figlio e all’attesa e preparazione del loro ultimo viaggio.
La musica non si limita a fare da “tappezzeria” al luogo e da sottofondo al momento vissuto, ma contribuisce a definirne la percezione, fin quasi a confondersi con il luogo e il momento stesso. Tutto avviene eppure tutto è soffuso, incorporeo, rarefatto.
Claudio Fabretti dice che l’opera di Eno potrebbe proseguire all’infinito. Dietro le sue lente fluttuazioni, la sua calma ossessiva, i suoi schemi ipnotici, si cela una suspense maligna, l’attesa per un colpo di scena che pare non arrivare mai, ma che a ogni nuovo ascolto potrebbe sopraggiungere. Ma forse è proprio questo, il suo colpo di scena.
Attesa e suspense che ammantare anche il finale de Lo psicopompo che sembra aneli un colpo di scena e forse un sospirato happy end.

Dario De Luca

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SCENA VERTICALE 2019