LO PSICOPOMPO

vedi scheda di produzione

la Repubblica – Rodolfo di Giammarco – 3 giugno 2021
«Lascia qualcosa d’indelebile in chi vi assiste, un lavoro tutto basato sulla rinuncia alla vita (e sul mito dei traghettatori di anime) come Lo Psicopompo, scritto, diretto e condiviso da Dario De Luca. Scomode sono le parole tra un figlio infermiere che accompagna i malati terminali alla fine e una madre professoressa (senza patologie, ma orba d’un primogenito) che ha optato per il suicidio. In una casa-urna di Donghi o Hopper visitata da Brian Eno e Kimderose, con olofonia di Westkemper, il destino d’una strepitosa Milvia Marigliano e del laconico De Luca è segnato, comune».

 

la Repubblica Napoli – Giulio Baffi – 15 giugno 2019
«Crudele, doloroso, nato per l’inconsueto palcoscenico di “Primavera dei Teatri”, prodotto da Scena Verticale, scritto e diretto da Dario De Luca, che ne è anche interprete insieme a Milvia Marigliano, “Lo Psicopompo” affronta invece il tema doloroso del desiderio della morte, della scoperta imprevista, della solitudine, della memoria che da crudele si fa intimità consolante, nel bell’incontro tra attori di differente generazione, con Milvia Marigliano ancora una volta inquietante nella sua capacità di costruire personaggi dalla forte valenza tragica appena venata da una crudele e personalissima ironia. Il suono, curato da Hubert Westkemper, è un valora aggiunto non trascurabile per la capacità di invenzione che asseconda l’idea di regia».

 

la Repubblica – Rodolfo di Giammarco – 19 giugno 2019
«Su questa linea d’ombra di spettacoli fondati su persone che ci sono e non ci sono, al Napoli Teatro Festival (fino al 14 luglio) si sono annoverati […] il tragico e impressionante mistero di fine vita con Lo Psicopompo di De Luca, lavori, questi ultimi due, battezzati alla Primavera dei Teatri di Castrovillari e molto in sintonia col tema dell’ultramondano dell’apertura del Napoli Teatro Festival».


Il manifesto – Mariateresa Surianello – 8 giugno 2019
«E con Lo psicopompo lo stesso De Luca affonda le mani nella morte, nella sua «accezione» più discussa e, in Italia, negata: l’eutanasia. Un tabù da cui scaturisce la confusione mediatica di questi giorni sul caso Noa Pothoven, la giovane olandese che si è lasciata morire di fame e di sete accompagnata dai genitori.
Presentato a Cosenza, in una delle ventisette strutture di Bocs Art- sorta di villaggio destinato a residenze artistiche sulle sponde del fiume Crati, a un passo dal centro storico – in coppia con una misurata Milvia Marigliano, l’autore-regista si cuce addosso il meditabondo personaggio del traghettatore, svuotandolo da ogni riferimento mitologico e religioso. Con lucida laicità si chiude all’interno del box e avvia una tragedia quasi sussurrata, davanti a sessanta spettatori dotati di cuffie che siedono all’esterno. Pulitissimo il suono, affidato a Hubert Westkemper, rilancia il dialogo dai toni pacati e familiari tra una donna sana che vuole morire e suo figlio».

 

la Repubblica – TrovaRoma- Teatro – Rodolfo di Giammarco – 3 giugno 2021
«Il testo tragico e impressionante mostra un serrato dialogo tra madre e figlio, che si confrontano con calma da brividi sul desiderio di morte. Nonostante il rapporto interpersonale tra i due, la genitrice e l’uomo contempleranno insieme il medesimo abisso. È una riflessione sul fine vita che oltre al valore civile del ragionamento contiene una sfera più privata di mancate passioni. Il progetto sonoro di Westkemper ha avuto l’Ubu 2019»

 

Hystrio – Claudia Cannella – 3/2019
«Tre anni fa De Luca aveva raccontato, ne Il Vangelo secondo Antonio, lo smarrimento di un brillante parroco, colpito dall’Alzheimer, e di chi gli sta vicino. Ora, ne Lo psicopompo, affronta un altro tabù: quello della morte per scelta. Ma da una prospettiva inusuale. La signora distinta e ben vestita, che chiede il suicidio assistito, non è affetta da una malattia fisica in fase terminale, bensì da una profonda infelicità esistenziale. Questione scottante, che ci mette di fronte a una riflessione necessaria. Le sofferenze dell’anima sono da considerare meno atroci di quelle del corpo? E di conseguenza, coloro che sono affetti da patologie psicologiche possono avere gli stessi diritti di chi soffre di una patologia fisica? In alcuni Paesi si sono già dati una risposta (vedi il recente caso di Noa Pothoven in Olanda), ma in Italia, dove sul diritto all’eutanasia siamo per varie ragioni ancora molto indietro, il “problema”, posto da De Luca con grande intelligenza e sensibilità, ci costringe ad aprire gli occhi su qualcosa che non avevamo neppure preso in considerazione. E anche solo per questo vale la pena di vedere lo spettacolo che ha realizzato, con massima cura, anche formale (si pensa ai quadri di Hopper e di Magritte), in uno dei box-studio per artisti in residenza del BoCs Art di Cosenza. Lì, davanti all’ampia vetrata di una di queste casette, noi spettatori, muniti di cuffia, ci troviamo a spiare, con lo sguardo e con l’ascolto, l’interno domestico dove la donna (una Milvia Marigliano di straordinaria intensità e misura) attende la persona che, come lo psicopompo mitologico, la dovrà aiutare a intraprendere l’ultimo viaggio. È un infermiere (lo stesso De Luca, ancora un po’ da rodare la sua prova), votato clandestinamente alla causa, che, per un bizzarro scherzo del destino, è anche suo figlio. Il dialogo tra i due, serrato ma pacato, diventa anche un’occasione per ritrovarsi, per fare i conti con un doloroso passato (la morte del figlio/fratello musicista) e affrontare quindi insieme il mistero della morte».

 

TeatroECritica.net – Andrea Pocosgnich – 6 giugno 2019
«Mentre scriveva il suo testo, Dario De Luca ancora non sapeva nulla del caso riguardante l’adolescente olandese che si è lasciata morire dopo anni di depressione causati dalle violenze sessuali subite. Eppure non è facile non pensare alla drammatica vicenda accaduta nei Paesi Bassi dopo aver visto Lo psicopompo, testo che segue Il vangelo secondo Antonio e che conferma il drammaturgo di Scena Verticale come una voce da seguire nel panorama della drammaturgia contemporanea. Perché ancora una volta egli riesce a sondare questioni e temi legati alla narrazione di storie particolari facendole però rispondere a necessità e sentimenti generali, se non addirittura epocali, come accade in questa ultima scrittura.
L’autore calabrese agisce con penna chirurgica, procedendo con il silenziatore; non ha interesse a sorprendere il pubblico con soluzioni avvincenti, cambi di linguaggio, sconvolgimenti della linea temporale o altri dispositivi narrativi spesso utilizzati nella scrittura drammatica contemporanea – talvolta ad arte, talvolta per scimmiottare la serialità televisiva. La vicenda è già data: come se in una tragedia classica arrivasse sin da subito un messaggero in grado di fornire tutti i fatti. Il resto è un avvitamento tra il passato famigliare e il presente sul quale batte incessante la linea di una nota grave e continua: la morte, o meglio la scelta di morire.
Già dalle prime battute il pubblico viene messo al corrente: una donna non più giovane vuole farla finita e decide di farsi aiutare da un professionista che la accompagni nelle ultime ore, un traghettatore di anime, uno psicopompo appunto. Alla tragedia personale della donna si aggiunge subito quella causata dalle circostanze: l’uomo in questione è il figlio. La madre vuole morire, senza un motivo particolare, senza chiari segni di depressione, dice – afferma di essere semplicemente stanca della vita. Ora allo spettatore rimarrà di sapere se l’uomo sceglierà di portare a termine la propria missione professionale e sentimentale, in quell’avvilupparsi nel passato che scoprirà i dolori di una vita e un amore filiale mai corrisposto ma ora presente all’ascolto. Se al Napoli Teatro Festival lo spettacolo andrà in scena in una versione più leggera e semplificata per quello che riguarda l’apparato scenico, al debutto a Primavera Dei Teatri (guidato proprio da Scena Verticale fino alla 20esima edizione) il dispositivo ha segnato profondamente l’immersione dello spettatore condizionandone visione e ascolto. Lo psicopompo è stato infatti allestito a Cosenza, a due passi dal fiume, in quel luogo tanto straniante quanto affascinante che è il complesso BoCs Art. Una sorta di piccolo quartiere dedicato all’arte nel quale l’amministrazione comunale ha fatto costruire due sponde di casette a due piani, in cui far vivere artisti che poi lasceranno le proprie opere alla città. In uno di questi box, che mostra il soggiorno al piano terra da una grande vetrata, De Luca ha allestito lo spettacolo. Qui troviamo Milvia Marigliano in attesa del proprio psicopompo, in un ambiente elegante ma minimale, di pochi arredi: un divanetto, un mobile sul quale è poggiato un giradischi con il quale la donna dà sfogo alla propria passione per la musica classica e una scala che porta al piano di sopra.
Allo spettatore vengono consegnate delle cuffie senza fili, con l’accortezza che vengano rispettati i due canali di ascolto. Bastano pochi secondi per capire il perché di tale indicazione: la cura del suono di Hubert Westkemper si trasforma nelle orecchie dell’ascoltatore in una puntuale sonorizzazione della scena. Si percepiscono le minime coloriture delle voci, gli affanni, i tentennamenti studiati e quelli non voluti, la rabbia trattenuta, i passi sulle scale dettati da una improvvisa nausea causata dal destino ineluttabile a cui l’uomo è costretto. La grande vetrata è una quarta parete inscalfibile che allontana la platea, la quale però subito si riavvicina grazie alla bolla creata da Westkemper, che di fatto è una stanza accogliente, nella quale possiamo entrare di soppiatto, in un apparente voyeurismo collettivo che in realtà è cassa di risonanza dell’intimità. Gli interrogativi di cui si nutre il testo arrivano dritti alle orecchie del pubblico: «Perché non puoi accettare che si possa desiderare la fine senza essere per forza moribondi o torturati dal dolore? Perché la morte deve essere un caso medico? I medici stabiliscono chi ha il diritto di morire con dignità e chi no? La società? Chi? E chi li ha fatti arbitri? Chi gli ha dato questo potere? Perché io per morire ho bisogno di supplicare te, che compatisci solo le gravi malattie, quelle che ti fanno credere di essere nel giusto perché sfigurano le persone, gli levano la dignità? Questa… cosa che fai tu, a pagamento, dovrebbe essere una cosa che so fare anch’io, che sappiamo fare tutti, dovrebbe essere di pubblico dominio».
È talento puro Milva Marigliano, strumento umanissimo di creazione dei sentimenti attraverso un registro di variazioni che si nutre di sincerità e sorprendenti colori. Probabilmente è da rodare ancora l’approccio di De Luca nella gestione del corpo e di alcuni momenti a rischio di affettazione. Ne beneficerà anche il rapporto tra i due personaggi, l’ascolto con il quale i due corpi devono entrare in comunicazione per arrivare a quel finale struggente e delicato che si palesa di fronte agli occhi dello spettatore, il quale è costretto a guardare ancora dietro alla vetrata: due volti coperti e ravvicinati, come i due amanti di Magritte privati dell’abbraccio. Qui non c’è speranza, non c’è abbraccio, se non la possibilità di una laica condivisione».

 

 

Ateatro.it – Fernando Marchiori – 14 giugno 2019
A volte realtà e teatro giocano a riconcorrersi, si superano a vicenda. Significa che la materia brucia, che il lavoro ha senso. Che l’arte tocca un nervo scoperto del presente anestetizzato. Con Lo psicopompo Dario De Luca mette in scena una riflessione sul fine vita che farà discutere. E la presenta (in anteprima a Primavera dei Teatri e al debutto ufficiale a Napoli Teatro Festival) in modo diretto e perentorio mentre langue in Parlamento dal 2016 una legge in materia e mentre echeggia la vicenda, maldestramente fraintesa dai media italiani, di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che si è lasciata morire smettendo di mangiare e bere, con il consenso dei familiari, in un suicidio assistito meditato a lungo e qui da noi frettolosamente scambiato per eutanasia. Ancora inedito, il testo dello spettacolo, firmato dallo stesso regista, ha ottenuto il Premio Sipario Centro Attori 2018. Un uomo ombroso (De Luca) e una donna depressa (Milvia Marigliano) s’incontrano in una sorta di loculo mentale, una stanza dalle geometrie minimaliste rotte solo dalla presenza, al centro, di un elegante canapè. Il raffinato disegno luci e la scelta di far seguire lo spettacolo in cuffia (con la perfetta regia fonica di Hubert Westkemper) determinano un’atmosfera asettica che ricorda gli interni di Edward Hopper.
Si scopre subito che i due sono madre e figlio, che non si vedono da tempo e che l’incontro è inatteso e doloroso per entrambi. Costretti a un’agnizione estrema, si trovano prigionieri di una gabbia di tensioni e coincidenze di sapore pirandelliano. Perché lui è un infermiere che, in maniera clandestina, aiuta i malati terminali a morire, menmtre lei è una professoressa in pensione che ha deciso di farla finita ma non ne ha il coraggio. Perciò ha chiamato un numero di telefono che le è stato suggerito. E le ha risposto suo figlio.
La pièce si sviluppa sull’esile filo che separa un istinto di vita prosciugato dal disamore, dalla perdita, dalla memoria insostenibile di un passato felice, e un istinto di morte fermentato lentamente e ormai pronto a metabolizzarsi in energia distruttrice. Lei non cerca la morte come via di fuga ma come punto d’arrivo razionalmente determinato. Sente la trama della propria vita arrivata a compimento. La morte, il suo desiderio, il suicidio come resa, aberrazione, scelta moralmente riprovevole o come atto estremo di libertà e autocoscienza, gli aspetti tecnici e giuridici del dare e ricevere la morte sono trattati in modo serrato e sobrio, ma con un’urgenza dettata dalla situazione contingente che riporta sempre i personaggi alla concretezza, lasciando agli spettatori la possibilità di sviluppare per proprio conto, mentre il dialogo si dipana in una dialettica serrata ma placida, i riferimenti filosofici impliciti (dal Seneca delle Lettere a Lucilio allo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione fino al Freud del Disagio della civiltà).
Dunque da quasi dieci anni, dalla morte del fratello, l’infermiere fa lo “psicopompo”, ovvero il traghettatore di anime. Spiega alla madre, avida di dettagli, che lui di solito usa i barbiturici per animali che si procura nei suoi frequenti viaggi in Messico. Oppure il metodo del sacchetto, su cui però resta vago e che puntualmente riapparirà nella catarsi finale. Con i “clienti” l’infermiere condivide i pochi momenti di intimità prima della fine. Si sente una guida. Ma in realtà dallo scavo dei complicati rapporti interpersonali emerge la sua sofferenza per l’anaffettività della madre nei suoi confronti, la sua gelosia verso il fratello più grande, talentuoso violinista stroncato da un male oscuro. Quando ebbe la prima manifestazione della malattia, sul palco durante un concerto, lei pensò: «Ecco ci hanno scoperto, sono venuti a prenderci la nostra felicità». E da quel momento fu un precipitare per tutti. «Quando finisce la vibrazione dell’ultima nota di un concerto? Non la vibrazione acustica, ma quella emotiva?» chiede al figlio che mette sullo stereo un altro vinile di musica classica.  «Quando finisce la vibrazione di una vita».
Ascoltando la musica cara al fratello, l’infermiere ha una delle sue crisi che si manifestano in sforzi di vomito e contorsioni. Sono accenni, improvvisi e non sempre convincenti, a una partitura fisica del dolore che a un cero punto prende la forma di una deposizione. Dalla postura del violinista a quella del Cristo deposto il passaggio in effetti è suggestivo, ma l’intervento della madre resta senza passione. È il suo unico trasporto emotivo nei confronti del figlio “rimasto”, eppure il gesto risulta non liberatorio e tragico, ma freddo, la figura immotivata se non come didascalia del testo.
La conclusione è prevedibile quanto inevitabile, com’è nelle tragedie. In una giornata di temporale, il figlio-infermiere tornerà nella casa con bombole e sacchetti. Poche frasi banali, mentre infila i guanti monouso. Un ultimo disco (Brian Eno, Music for airport) e un bacio sulla guancia: la testa infilata nel sacchetto e il gas, prima alla madre poi a se stesso. All’ultimo, dopo essersi sfilato un guanto, il figlio stringerà la mano della madre, riunendosi finalmente a lei nel mistero della morte, nella contemplazione dell’abisso.§Milvia Marigliano è straordinaria interprete di una figura difficilissima da prendere sul serio. Ed è brava anche nell’adattarsi alla novità tecnica che le consente di lavorare su un’emissione franta, sussurrata. Si sente il sospiro, il singhiozzo trattenuto, il nodo in gola. L’interpretazione di De Luca è misurata e generosa nel farsi da parte, nella stasi, nella postura dell’ascolto e della pietas. Nell’ambito del festival Primavera dei Teatri, giunto alla sua ventesima edizione, lo spettacolo è andato in scena a Cosenza in uno dei BoCs Art sorti sulle rive del fiume Crati. Si tratta di strutture destinate a residenze artistiche con grandi finestre vetrate, come la vetrinA di un negozio, o, in questo caso, come una quarta parete sempre sfuggente e sempre presente. Lo spettatore poteva provare la sensazione di essere distanziato in una visione sterilizzata e al tempo stesso acusticamente risucchiato all’interno del loculo scenico, traslato in una esperienza di sdoppiamento percettivo che ha forse a che fare con il disagio di ciascuno di fronte a un tema tanto delicato e complesso.

 

Doppiozero.com – Angela Albanese – 14 giugno 2019
“Non nasciamo per nostra scelta. Ma dobbiamo morire allo stesso modo?”. Questa domanda, estrema e smisurata, tratta ancora dalle pagine di Zero K di DeLillo (p. 219), ci fa precipitare di nuovo nel tema della fine, quella scandalosamente cercata da chi, pur non affetto da alcuna patologia clinica, soffre di un desolato male di vivere, ha l’anima malata. È questo il tema della nuova produzione teatrale di Dario De Luca, anima di Scena Verticale e di Primavera dei Teatri, dal titolo Lo psicopompo, che ha debuttato in anteprima nazionale a Castrovillari e di cui De Luca è autore e regista, oltre che interprete con la meravigliosa Milvia Marigliano.
Lo spettacolo, per soli 60 spettatori dotati di cuffie, è stato allestito non nelle sale storiche del festival ma a Cosenza, all’interno del complesso BoCs Art, il più grande spazio creativo di residenze in Europa in cui dimorano artisti ospiti della città. Il complesso architettonico è costituito da vere e proprie casette a due piani dotate di ampie vetrate sull’esterno. E proprio una di queste è stata individuata da De Luca come spazio ideale per la sua drammaturgia, che in questo primo allestimento è ambientata in un interno essenziale – un sofà, un ripiano in vetro su cui poggia un giradischi, una scala sullo sfondo che conduce al piano superiore – lasciando gli spettatori all’esterno, oltre la vetrata, ma sempre a contatto diretto con le voci, i respiri, i rumori che riempiono la scena, grazie alle cuffie e alla perfetta cura del suono di Hubert Westkemper.
Già dalla prima scena veniamo catapultati nella vicenda. Una donna, ex insegnante di mezz’età ma ancora avvenente, ha deciso di mettere fine alla sua esistenza. Nessuna malattia in corso o particolare sofferenza fisica l’hanno convinta a cercare la morte, ma un’irreversibile apatia, un’ormai insopportabile afflizione psicologica e l’avversione verso qualsivoglia umana attività e relazione, complice la morte del suo primo figlio Gabriele, quello prediletto, per una grave malattia. Chiede aiuto per telefono a un giovane infermiere, che clandestinamente pratica l’eutanasia attiva, lo psicopompo del titolo appunto, un traghettatore di anime dei nostri giorni che aiuta a morire chi non ha la forza o il coraggio di togliersi la vita. Al primo incontro tutti scopriamo, personaggi compresi, che quell’infermiere è il figlio più giovane della donna ormai lontano da casa da molti anni, quello che lei ha sempre trascurato per prendersi cura di Gabriele, figlio modello e musicista talentuoso.  Il resto è teatro di parola, con nascosta fra le righe anche qualche garbata citazione, come quella sugli stormi tratta dall’Altrui mestiere di Levi; riflessioni sulla morte, discorsi e ricordi carichi di tensioni mai risolte tra una madre, che rivendica il suo diritto di scegliere come e quando morire – il diritto di morire felice e lasciare la vita senza paura, direbbe Hans Küng (https://rizzoli.rizzolilibri.it/libri/morire-felici/) – e un figlio, professionista della morte, ma prima di tutto figlio.
Non anticipiamo il finale di questa intensa prova teatrale di De Luca, che ha richiesto un lavoro lungo e costante in questi ultimi anni, fatto di confronti e di letture approfondite, anche condivise. Una prova che conferma il raggiungimento di una maturità tanto drammaturgica quanto registica di De Luca, di cui non si può non apprezzare il coraggio di inoltrarsi in spazi tematici impervi e scomodi, qui la morte e in precedenza i suoi contorni, con l’affondo sulla terribilità dell’Alzheimer presentato nel Vangelo secondo Antonio. Questioni e temi coraggiosi, appunto, coraggiosi e rischiosi come può esserlo il teatro, e che solo un giudizio affrettato tenderebbe a liquidare frettolosamente. Teatro come tempo dell’attenzione e spazio di dilatazione dell’esperienza, quella degli artisti e quella di noi spettatori.

 

Corrierespettacolo.it – Claudio Facchinelli – 4 luglio 2019
Ma il lavoro più atteso di questa ventesima edizione di Primavera dei Teatri era Psicopompo, prodotto da Scena Verticale, di e con Dario De Luca e con Milvia Marigliano. Non era solo il tema della morte, affrontato in uno dei suoi aspetti più impronunciabili, cioè l’eutanasia, a rendere lo spettacolo gravido di aspettative, ma anche il particolare spazio scenografico in cui era proposto: gli inconsueti e fascinosi luoghi di Art box, a Cosenza, sulla sponda del fiume Crati. “Siamo stati afferrati dallo spazio, che ha dettato legge”, ammette Dario. Lo spettacolo narra dell’incontro, e del successivo drammatico declinarsi ed evolversi, del rapporto fra un professionista della buona morte (appunto lo psicopompo del titolo, il traghettatore di anime delle tradizioni infere) e la sua paziente, in cui riconosce la propria madre. Il pubblico, che si trova all’aperto, di fronte alla grande vetrata di una sorta di casa vetrina, vi assiste con una partecipazione empatica, quasi indiscreta, grazie al raffinato disegno sonoro di Hubert Westkemper, che trasmette in cuffia le sfumature più segrete cui una Milvia Marigliano, al meglio della sua maturità professionale ed umana, conferisce i toni di dolorosa ma contenuta disperazione. In più, una sorprendente, densa partitura di suoni e rumori obbliga lo spettatore a sollevare di tanto in tanto la testa, per sincerarsi della provenienza di uno scoppio di un tuono, del passaggio di un aereo. Fino al colpo di scena finale. Una scommessa coraggiosa, quella di Dario, ma vincente: sia sul piano della scrittura e della regia, sia su quello attorale, nell’impegnativo confronto con Milvia.

 

 

Recensito.net – Tommaso Chimenti –  18 giugno 2019
Morte come aspetto fondamentale della vita anche ne “Lo Psicopompo” (testo già vincitore del “Premio Sipario”; esiste anche l’omonima compagnia teatrale diretta da Manuela Cherubini) che significa “guida delle anime dei defunti”. E Dario De Luca, una dei tre pilastri di Scena Verticale e di Primavera dei Teatri, che nel suo precedente spettacolo aveva impersonato un sacerdote affetto da alzheimer, “Il vangelo secondo Antonio”, stavolta (suoi testo e regia di questo duetto ben congegnato) orchestra attorno ad un infermiere che porta clandestinamente una dolce morte a chi è gravemente malato, donando sostegno e solidarietà. Il plot ricorda la pellicola “Miele” di Valeria Golino con Jasmine Trinca e Carlo Cecchi. Sulla scena lo stesso De Luca e la straordinaria, da premio, Milvia Marigliano recentemente apprezzata come la madre di Stefano Cucchi nel prodotto Netflix “Sulla mia pelle” con Alessandro Borghi, memorabile la sua scena in “Loro 2” di Sorrentino con Berlusconi che la chiama a casa e le fa comprare un’abitazione della quale non aveva bisogno o, in teatro, nella trilogia americana di Arturo Cirillo. Se a questo ci aggiungi che l’ingegnere del suono è Hubert Westkemper che aveva ideato per il debutto-site specific di Cosenza un impianto di cuffie per gli spettatori (come nella sua “Elettra” di De Rosa) mentre gli attori se ne stavano dentro una teca costituita dal piano inferiore delle casette che il capoluogo calabrese ha stanziato lungo il fiume nelle quali vengono ospitati esponenti d’arte contemporanea (nelle stesso luogo altre repliche a inizio luglio), la piece prende quel respiro e quella rincorsa da piccolo cult. Proprio nei giorni nei quali una ragazza olandese di diciassette anni si è lasciata morire a casa perché non desiderava più vivere, con gli strascichi sempre presenti di Eluana o Dj Fabo o ancora Welby, dopo aver appreso che Corrado Augias (anche Odifreddi è sulla stessa lunghezza d’onda) si è comprato il kit della dolce morte, il tema dell’eutanasia non si è affatto sopito e aspetta un altro caso per farlo ritornare di moda nell’agenda politica e sui media, perché in Italia viaggiamo sempre sull’urgenza e sull’emotività del momento. In un interno borghese, con il fondale che sembra uno schermo cinematografico semovente che nell’ultimo quadro si fa “vetro” e incastona gli attori in una distanza (starebbe perfettamente all’interno di un museo come installazione), dentro la loro bolla di vetro come pesci in apnea, una donna ha deciso di morire, non perché malata, ma perché spossata, non vuole più combattere, vuole solo andarsene.Contattando in maniera carbonara uno specialista che effettua questo tipo di servizi incontra il figlio, è lui “lo Psicopompo”, il Caronte. La Marigliano (con Maria Paiato una delle migliori attrici della sua generazione) è una Madonna sofferente, una dolente Madre Coraggio, ha la grinta di Frances McDormand in “Tre manifesti ad Ebbing”, ha dentro la forza contrita della Pietà Rondanini, ha quella carica solenne che può esplodere da un momento all’altro, quell’adrenalina composta e la miccia lì pronta ad infiammarsi in un attimo. La sua è una sofferenza compassata, dignitosa, mai lamentevole, integra seppur piegata e piagata dalle intemperie della vita. Madre e figlio davanti all’interrogativo etico se sia giusto porre fine alla propria esistenza. In un susseguirsi di stati d’animo che mutano e fluttuano, sottolineati da musiche enfatiche e da pose che rimandano ad opere classiche, il testo si innalza a forma universale estraniandosi dal tempo (in sospensione c’è un qualcosa di intimo e sotterraneo che ci portato nell’atmosfera di “Morte di un commesso viaggiatore”), ponendosi in uno spazio che a tutti appartiene, che ogni epoca abbraccia. Siamo sussulti, siamo silenzi, siamo attese: “E’ difficile soffrire in modo simpatico”. Rimaniamo galleggianti tra “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” di Romeo Castellucci e “Gli amanti” di Magritte: toccante. Come Napoli.  
“Dovunque sono andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli”. (Luciano De Crescenzo)

 

 

Gazzetta del Sud – Elisabetta Reale – 5 giugno 2019
«Capita, a volte, che un luogo scelto per provare uno spettacolo – i BoCsArt di Cosenza, il più grande spazio creativo di residenze d’Europa lungo il fiume Crati – diventi perfetta ambientazione per la narrazione. Intimo, privato, uno spazio in cui parole e pensieri vengono offerti al pubblico attraverso lo schermo di un vetro e risuonano grazie a delle cuffie. Una visione solo apparentemente privata capace altresì di sollevare una riflessione comunitaria. “Lo psicopompo”, scritto, diretto e interpretato da Dario De Luca in scena con Milvia Marigliano, (suono Hubert Westkemper, una produzione di Scena Verticale, col sostegno di Cosenza Cultura e BoCs Art Residenze D’artista) è stato proposto in anteprima nazionale – debutterà poi al Napoli Teatro Festival il 15 – durante il festival “Primavera dei Teatri” che la compagnia organizza da vent’anni a Castrovillari, con la preziosa e lungimirante direzione artistica di De Luca e Saverio La Ruina e quella organizzativa di Settimio Pisano, attorniati da uno staff (professionalità per lo più calabresi) capace ed entusiasta. […]
Come “Lo psicopompo”, ovvero il traghettatore delle anime nell’aldilà. Ambientato in un luogo freddo e asettico come le esistenze dei protagonisti, con una parola affilata e un sottofondo musicale che ne acuisce umori e sentimenti, “Lo psicopompo” indaga quella volontà di morire non in presenza d’una malattia terminale ma di un male di vivere che spegne palpiti e desideri.
Un tema fortemente politico e profondamente umano quello affrontato con delicatezza e pudore da De Luca, calato sui corpi di un uomo e di una donna, un infermiere che aiuta in maniera clandestina malati terminali al suicidio assistito e una professoressa in pensione, legati da un particolare rapporto affettivo, portatori di un immenso disagio e di una straziante malattia dell’anima.
Perché per combattere dolore, solitudine, vuoto, sconfitte a volte si può “scegliere” la morte, come nello spettacolo decide di fare la donna splendidamente tratteggiata nel suo tormento da Milvia Marigliano. La casa/vetrina diventa luogo dell’incontro verbale tra i due, delle rivendicazioni e delle contrattazioni, tra parole, bisbigli, passi, respiri, sino al silenzioso epilogo».

 

Paneacquaculture.net – Ilena Ambrosio – 8 giugno 2019
«E si parla di morte, anche in Lo Psicopompo, scritto e diretto da Dario De Luca che debutta in casa, con grande emozione generale. Si parla di morte che è un po’ come parlare di vita se, come afferma Spinoza «quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione sulla vita».
Rivendica proprio libertà la protagonista, libertà di scegliere di porre fine alla propria esistenza. Non per malattia, non per una sofferenza fisica né per un delirio della mente. Ma per scelta: «Io non cerco la morte come via di fuga, ma come fine». Contatta uno psicopompo (‘traghettatore di anime’ dal greco) che la assista nel suicidio, con distacco e professionalità; ma si ritrova davanti il figlio. La coppia appare nel momento immediatamente successivo l’agnizione, nello sconvolgimento della detonazione. Ciò che verrà è un agire teatrale che «è mosso dall’ossessione di dare forma concreta all’impensabile della morte» dichiara De Luca. E si concretizza in un dialogo che sta a metà tra lo scontro familiare e la disquisizione filosofica, in cui l’ombra di una sciagura passata (ancora una morte per malattia), rivendicazioni, rancori si fanno spirale con il tentativo di sondare, di afferrare il senso di quello che è il nostro passaggio su questa terra.
Non risulta sempre fluido e calzante questo intreccio, a tratti un po’ forzate le “elevazioni all’universale”, ma i due interpreti riescono nel non facile compito di restare in equilibrio tra i piani, di non cedere a patetismi – pur nell’inteso sentimento della rappresentazione – né a pedanteria dialettica. Lo spettatore, intanto,  è letteralmente immerso in questo dialogo. Il lavoro nasce, quasi site specific – sarà in scena al Napoli Teatro Festival in una versione scenicamente differente – all’interno dello splendido BoCs Art di Cosenza, la più grande area di residenza in Europa. Case/vetrine a due piani che sono spazio creativo e anche luogo di residenza per gli artisti.
Proprio in una di queste vetrine lo scorcio di un soggiorno: un divano, un tavolino con un giradischi, sul fondo una scala e una parete che riverbera, a ogni cambio di scena, di una differente tinta luminosa (di De Luca anche le luci). Qui si svolge l’azione che seguiamo con delle cuffie. Il suono curato da Hubert Westkemper ci è restituito nei minimi dettaglio, rotondo, avvolgente, a vantaggio anche della musica, elemento fondamentale della pièce. È come se si annullasse la distanza da quello spazio altro e definito, abitato dagli interpreti di fronte a noi, e ci si ritrovasse lì dentro, con loro. Un’operazione davvero magistrale.
Tali scelte scenotecniche “contemporanee” potrebbero, a primo acchito, sembrare ingiustificate per un lavoro che, giocato su codici “tradizionali” –  virgoletto con decisione, aborrendo tale categorizzazione – potrebbe essere messo in scena, senza perdere nulla, anche in un teatro.
Eppure, riflettendo su quel “senza perdere nulla” mi sono convinta che proprio questa immersione consente un rapporto ravvicinato e intimo con la parola di un testo che vuole parlare all’orecchio, per dire, quasi senza mediazioni, al sentire intimo di ciascuno, e pure all’intelletto che tenta di pensare e razionalizzare la morte, ma anche la delicata questione del suicidio assistito (come non pensare, a posteriori, al caso di Noa Pathoven). Una comunicazione a più livelli che rende Lo Psicopompo una riflessione intima ma insieme universale e politica».

 

Inscenaonline.net – Giuseppe Condorelli – 7 giugno 2019
Una quarta parete supplementare e trasparente, una enorme vetrata, luminosa nella notte: perché nessuno assiste, tutti – piuttosto – spiano e ascoltano, appostati nel buio della platea con tanto di cuffie stereofoniche. Verrebbe subito da pensare a “La conversazione” di Coppola o alle “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck. Ma “Lo psicopompo” di Dario De Luca, che ne è pure regista e interprete insieme ad una splendida Milvia Marigliano – al debutto negli spazi suggestivi dei Bocs Art di Cosenza, prodotto da Scena Verticale per il Festival Primavera dei Teatri – è invece una riflessione sul (non)senso della morte post-contemporanea, rimandando ad un’altra e assai più diversa “guerra fredda”: quella tra una Madre e un Figlio. Sulla scena, l’interno spoglio di una casa, solo una dormeuse: tangibile allusione (freudiana) alla necessità di una confessione, di un dialogo. Una donna si aggira in quel vuoto: e la tecnica olofonica – davvero encomiabile il lavoro di Hubert Westkemper sul suono – consente al pubblico non solo una percezione assai precisa dello spazio che percorre ed in cui vive ma circoscrive simbolicamente l’imbarazzante reticenza sulla Morte nella modernità nella dimensione del segreto. Lei vuole farla finita una volta per tutte: e in epoca di morte tecnologicamente assistita come l’attuale, le basta una telefonata al numero giusto. Una voce fredda e impersonale ne appunta coscienziosamente i dati, le detta i tempi, le modalità. E il prezzo, ovviamente. La morte arriverà puntuale grazie ad un infallibile protocollo assistito. Ma è qui che l’efficienza organizzativa si incrina: lui, l’infermiere-funzionario che deve “agire”, riconosce subito quella voce: è la proprio la madre, che non vede da anni.  Comincia così una resa dei conti, feroce, un gioco grottesco tra Madre e Figlio: la prima a insistere nel suo proposito, l’altro a tentare di dissuaderla. Un conflitto che spesso scorre nascosto, segreto quasi, emergendo improvviso tra le loro parole, in mezzo ai loro discorsi apparentemente comuni e banali, in una atmosfera tesa e amara nella quale aleggiano ancora sia il fantasma di un figlio (e di un fratello) scomparso, sia l’abbandono di un padre e (di un compagno): cinque brevi quadri, scanditi dall’alternanza di luci come tagli e musica. Due solitudini abissali dunque: lei, una donna colta, un’intellettuale ma “aspra dentro”, nessun motivo per vivere ancora, la forza tremenda della perdita di un figlio ad impattare su una esistenza che gira ormai a vuoto. “Non bisogna essere malati terminali per avere il diritto di scegliere”, si ostina a ripetere al Figlio: e la straordinaria versatilità dell’interpretazione di Milvia Marigliano riesce in ogni momento a declinare – oscillando tra sarcasmo e disperazione assoluta, amore materno e cruda logica suicida, ora con sdegnoso distacco, ora con docile mestizia – la trasparente auto-alienazione di una donna che ha scelto di morire: “tu sei la mia fine serena” dice ad un certo punto al Figlio, chiosando definitivamente il senso della sua esistenza e di quell’incontro inatteso. Dall’altra parte lui è solo uno che dispensa la morte, un mero impiegato della fine, senza legami, senza una vera vita e la sua funzione stride paradossalmente anche con il profilo mitologico cui il titolo della pièce rimanda – lo psicopompo appunto, il “traghettatore di anime” – poiché disattendendone il ruolo “neutrale” tradisce in sostanza se stesso. In fondo, si trova a confessare il Figlio, per tutti quegli anni avrebbe voluto solo “la sua mamma”, il suo affetto, le attenzioni tutte spese per l’altro: quello bravo, quello preferito, l’artista.  Due solitudini insomma che rimangono in bilico, pare quasi non confliggano definitivamente, anche quando lo scontro sembra farsi più duro, quasi definitivo: e se la Madre paventa l’angoscia di una vecchiaia da inferma è il Figlio a ricordarle che “non si può avere paura di aver paura di morire”. A dominare l’atto unico è un senso assoluto di vuoto – e non a caso stillano le note da “Ambient 1” di Brian Eno – di piattezza che l’asetticità delle nude pareti, il taglio hopperiano di luci e discena sottolineano chiaramente. Pur con qualche passaggio registico minimalista, lo spettacolo perlustra dignitosamente la dimensione abissale di una guerra intima che, alla fine, sarà senza vinti né vincitori.  E il senso di una scelta senza ritorno che poco a poco diventa comune, di due distanze che inesorabilmente si accorciano, pare consistere, allora, in un ultimo e definitivo contatto di mani che affida entrambi all’abisso ma che, forse, li redime».

 

 

Klpteatro.it – Elisabetta Reale – 18 giugno 2019
«Si può scegliere di morire anche se non si è affetti da una malattia terminale, perché talvolta i dolori dell’anima possono essere ugualmente atroci e insopportabili tanto quelli del corpo.
Parte da questo assunto Dario De Luca ne “Lo psicopompo”, affrontando un tema che, solo pochi giorni dopo l’anteprima, diventa di “pubblico interesse” per la vicenda di Noa Pothoven, giovane ragazza olandese che a diciassette anni, non riuscendo più a sopportare e a resistere alla sofferenza psicologica causatale da ripetuti episodi di violenza sessuale subiti a partire dagli 11 anni, ha deciso di lasciarsi morire. Una sofferenza che, calata sui corpi degli attori, si fa sussurri e piccoli gesti, quelli osservati durante la prima dello spettacolo accolta da Primavera dei Teatri, festival organizzato da vent’anni dalla compagnia Scena Verticale di cui De Luca è direttore artistico insieme a Settimio Pisano. Un’edizione in cui più volte, negli spettacoli proposti, è risuonato il tema della malattia come della morte – ne sono esempio “Il problema” di Paola Fresa, dedicato all’Alzheimer, a cui lo stesso De Luca ha dedicato “Il Vangelo secondo Antonio”, e in “Per il tuo bene” di Pier Lorenzo Pisano – come se fosse un bisogno impellente di questo tempo, da scandagliare attraverso la parola drammaturgica.
E mentre osserviamo lo spettacolo di De Luca risuonano nella mente anche le parole che l’attrice e autrice Chiara Stoppa, in un altro lavoro visto a Primavera dei Teatri, utilizza per delineare uno dei punti da cui ha preso le mosse il suo “Aldilà di tutto”: «La morte può essere una guarigione». Di morte e di guarigione, dell’anima più che del corpo e della possibilità di continuare a scegliere per la morte come lo si è fatto per tutte le cose della vita, parla “Lo psicopompo” (il testo è vincitore del Premio Sipario Centro Attori 2018), ovvero il traghettatore delle anime nell’aldilà. E lo fa – almeno per l’anteprima nazionale, lo spettacolo ha debuttato poi al Napoli Teatro Festival sabato 15 giugno – in uno spazio privato, quasi claustrofobico, in cui parole e pensieri vengono offerti al pubblico attraverso lo schermo di un vetro e risuonano grazie a delle cuffie. Dario De Luca sceglie infatti una costruzione in legno e vetro, ai BoCsArt di Cosenza, il più grande spazio creativo di residenze d’Europa lungo il fiume Crati, per ambientare lo spettacolo condiviso con solo 60 spettatori, separati dalla scena da un vetro e che grazie a delle cuffie – curatissimo il suono, grazie al lavoro di Hubert Westkemper – possono cogliere ogni sfumatura del dialogo tra i due attori in scena, De Luca e la straordinaria Milvia Marigliano. “Lo psicopompo” indaga quella volontà di morire non in presenza d’una malattia terminale ma di un male di vivere che spegne palpiti e desideri. Un tema fortemente politico e profondamente umano, affrontato con delicatezza e pudore da De Luca grazie alla storia di un uomo e una donna. Un infermiere che aiuta in maniera clandestina malati terminali nel suicidio assistito, e una professoressa in pensione, austera ed elegante, legati da un particolare rapporto affettivo e portatori, entrambi, di un immenso disagio e di una straziante malattia dell’anima.Perché per combattere dolore, solitudine, vuoto e sconfitte a volte si può “scegliere” la morte. Come decide di fare la donna, pienamente tratteggiata nel suo tormento dalla Marigliano.
Dimesso, chiuso nella sua camicia di un colore anonimo, De Luca occupa uno spazio liminare nella casa/vetrina che diventa luogo dell’incontro verbale tra i due, delle rivendicazioni, dei ricordi e delle ferite del passato, che tra parole, bisbigli, silenzi che paiono interminabili, passi pesanti, sospiri e respiri, riemerge in tutto il suo pesante carico emozionale. Un fardello che i due non sono mai riusciti a condividere in vita e che li accompagnerà sino al silenzioso epilogo in cui, per una volta, si avvicinano. Distanti, separati dallo spazio scenico e con l’ausilio delle cuffie, gli spettatori godono di una visione solo apparentemente privata, capace altresì di sollevare una riflessione comunitaria. Ambientare la narrazione in un luogo spoglio e asettico, quasi come le esistenze dei protagonisti, acuisce il senso di profonda solitudine che attanaglia entrambi; per loro solo una dormeuse, dove poter appoggiare quei corpi stanchi che combattono una personale partita con la vita e tra di loro, attraverso una parola affilata, mai eccessiva, e un sottofondo musicale che, come un contrappunto dell’anima, ne acuisce umori e sentimenti».


Loguardodiarlecchino.it – Igor Vazzaz – 20 gennaio 2022
«Psicopompo, non molti lo sanno, è una parola inclusa nel nostro vocabolario: derivante dal greco, indica la figura che traghetta le anime dal mondo dei vivi a quello dei morti. L’esempio più celebre è quello, pure grazie all’Alighieri, di Caronte; trattandosi d’una figura archetipa, anche il cristianesimo ha il suo nocchiero nell’arcangelo Michele, che sovente l’iconografia ritrae scortatore d’anime buone sottratte al demonio.
E Michele è il nome del personaggio di Dario De Luca nel lavoro che lo vede trino, autore, regista e attore: ne ascoltiamo, a inizio recita, la voce off, in una telefonata “logistica”, relativa a un incontro. Lo troviamo, subito dopo, in uno spazio di sapore borghese: al centro, un canapé trapuntato, quasi un arredo da seduta psicanalitica; sulla destra, un mobile-giradischi; dietro, una possente parete a cornice che delimita e dimezza il palcoscenico. Con lui, una donna bionda, signorile, sui sessanta, capelli scarmigliati, sospesa tra l’evidente sconcerto e una disperazione non dissimulabile. L’agnizione, il reciproco riconoscimento, avvenuta fuori scena: adesso è l’imbarazzo rancoroso ad avviluppare questa coppia madre-figlio, entità nucleare che chissà quale detonazione ha allontanato, forse irrimediabilmente. Il motivo dell’inattesa reunion rappresenta il cuore del dramma: Michele è un infermiere e, clandestinamente, presta servizio a coloro che vogliono porre fine a una vita resa insopportabile dalla malattia; è uno psicopompo del nostro tempo. Mai si sarebbe figurato, però, di trovarsi davanti colei che la vita gliela diede, partorendo.
Questo l’abbrivio per una scherma drammatica serratissima, a tratti violenta, eppure misurata nei toni e nei gesti: Milvia Marigliano è debordante per vibrata efficacia e profondità vocale, e il suo italiano sporcato di settentrionale disegna perfettamente questa signora acuta, sensibile, presente a sé quanto decisa a farla finita, pur in assenza di malattia terminale. Il testo qui s’acumina: Michele s’oppone, dice, giustamente, di non essere un assassino, che il suo lavoro, ancorché illegale, è misericordioso, perché pone fine a sofferenze indicibili. Ma soltanto la medicina può arrogarsi il diritto di definire quali siano o meno le sofferenze dicibili? Questione spinosa, divenuta centrale nella nostra realtà pandemica.
Emergono traumi più o meno rimossi, la morte del fratello maggiore Gabriele (altro nome d’arcangelo…), violinista, e la musica irrompe sia nello spazio teatrale (l’ouverture di Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss, tema cardine di 2001 Odissea nello spazio, titolo persino citato da Michele, e Music for Airports, di Brian Eno) sia su pagina, giacché ogni scena è introdotta da un’indicazione di andamento musicale. E lo spazio si modifica, a vista, coi due che spostano la parete di fondo, prima inclinandola di lato rispetto all’asse del proscenio, poi collocandola parallelamente a quest’ultimo, sorta di cornice entro cui si svolge la scena finale, dato che gli attori recitano dietro a quello che si rivela un velo. Le soluzioni visive, coerenti e azzeccate, traducono la dimensione asfittica del dramma e l’insostenibilità del finale, che sembra necessitare l’allontanamento implicito e all’inquadramento di secondo grado (l’arco scenico è cornice già di per sé) e alla schermatura. La scelta esiziale si compie, così come un ultimo, estremo e fuori tempo massimo riavvicinamento tra i due, quasi a sfidare l’ineluttabile solitudine della morte.
Applausi per un lavoro denso che inaugura Lucca Visioni, rassegna proposta dal Teatro Del Carretto, unica offerta di teatro contemporaneo in una città che pare condannata all’intrattenimento».

footer
SCENA VERTICALE 2019